26 gennaio 2020 - III Domenica del T.O. della Parola: convertirsi alla Luce

News del 25/01/2020 Torna all'elenco delle news

Come luce in terra tenebrosa

Gesù sente che Giovanni è stato arrestato e questa notizia suona come un allarme nella sua coscienza. La voce è stata ‘silenziata’, non come oggi accade per le notifiche indesiderate dei contatti sul telefonino, che puoi riattivare in qualsiasi momento, ma l’opposizione umana al piano di Dio ha estinto la voce che annunciava il Verbo. Che fa l’uomo di fede dopo aver appreso una ‘cattiva notizia’? Gesù insegna che esattamente questo è il tempo in cui divulgare con più convinzione la ‘buona notizia’, anzi in maniera definitiva e irreversibile.

Da qui in avanti la Parola incarnata e la Parola proclamata coincideranno perfettamente, il messaggio di Cristo sarà sempre più esplicitato dai suoi gesti e dalle sue parole con una coerenza e forza che noi ‘ci possiamo solo sognare’. Ecco tuttavia l’inganno: quello di pensare che non avremo mai la stessa adesione di Gesù al progetto del Padre, che inevitabilmente il nostro vangelo sarà annacquato e che la nostra testimonianza impallidisce dinanzi al servizio reso al Regno dai grandi santi. In realtà il Maestro opera perché ci convinciamo del contrario. Egli non comincia il suo cammino pubblico dalla religiosa Giudea, ma dalla Galilea, regione impura come la nostra vita, terra di contaminazioni per le dominazioni antiche, perché la Parola non crea un mondo fatato senza conflitti, ma aiuta ad assumerli e a riconoscere la diversità come segno di una alterità che è dono. Certamente il primo conflitto da elaborare è quello dentro noi stessi, tra lo slancio sincero verso il vangelo e i vani ripetuti tentativi di cambiare qualcosa nella nostra vita. Cristo entra dentro questa impurità e vi dona la sua luce, come aveva annunciato il profeta Isaia. Nelle tenebre l’unica speranza è l’attesa della luce, che a Natale si è accesa, e che adesso siamo chiamati a fissare. Contemplare la luce significa allora guardare a Gesù e al suo messaggio di salvezza. È questa la prima conversione: non distoglier lo sguardo da Lui, perché farlo significherebbe cadere nello scoraggiamento e pensare che la bellezza non è per noi, che noi non siamo fatti per lei. Guardando all’uomo Gesù ci renderemo conto che il suo passaggio è come un faro che illumina, mette a nudo i segreti, stana e soprattutto attira, poiché noi siamo naturalmente attratti dalla luce. Cosa può spingere le due coppie di fratelli a lasciare ogni cosa, se non la forza attrattiva di questo viandante che invita a tutt’altro cammino, a tutt’altra pesca? Simone e Andrea sono nella fase iniziale della loro giornata di lavoro, mentre Giacomo e Giovanni alla fine, ma tutti lasciano tutto perché riconoscono Gesù come il Signore del loro istante. Non c’è spazio per gli indugi, e persino la figura del padre Zebedeo, sullo sfondo, che avrebbe potuto protestare contro Colui che stava sovvertendo un consolidato assetto familiare, sembra piegarsi alla nuova logica del Regno. È una logica che non ammette ritardi, che implica l’abbandono di ciò che riempiva buona parte di te, come il lavoro e gli affetti, per fidarsi di uno che entra nella vita creando anzitutto un vuoto. Luce, strappo, vuoto e infine una promessa. Quanto sarà stato difficile credere a una promessa così assurda: «vi farò pescatori di uomini»! Forse che gli uomini si lasciano pescare? Quanta difficoltà oggi nel coinvolgere, soprattutto i giovani, nell’avventura del vangelo! In genere, quando tu proponi di seguire Gesù a qualcuno, la prima reazione è una profonda diffidenza verso Colui che vorrebbe limitare autonomia e libertà, che estinguerebbe l’ardore giovanile in cerca di divertimento e di qualche trasgressione. È difficile rimuovere tale pregiudizio, ma il vangelo, come sempre, indica la via. Seguire Gesù significa camminare insieme a Lui e ai fratelli. Non siamo soli! Da soli possiamo cadere nella tentazione di pensare che tutto è frutto della nostra fervida immaginazione, che ciò che siamo non è sufficiente per rispondere a ciò che sentiamo. Quanto è importante, allora, che sempre dentro una chiamata Dio ci metta accanto un fratello, garanzia di realismo e bellezza. Il cammino di Cristo e dei discepoli ha come epilogo la compassione verso «ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo». Un’accusa ricorrente a tanti percorsi ecclesiali è l’autoreferenzialità e la mancanza di concretezza. La costante compagnia dei poveri e dei sofferenti, invece, è la certificazione di autenticità di un cammino che viene da Dio. Chi non si lascia costantemente scomodare dai bisognosi sta seguendo una gnosi e cerca se stesso, non il Signore della pesca. 

Omelia di don Tonino Sgrò tratta da www.reggiobova.it

 

Il Signore è qui, ma riusciamo a distrarci

Giovanni è stato arrestato, tace la grande voce del Giordano, ma si alza una voce libera sul lago di Galilea. Esce allo scoperto, senza paura, un imprudente giovane rabbi, solo, e va ad affrontare confini, nella meticcia Galilea, crogiolo delle genti, quasi Siria, quasi Libano, regione quasi perduta per la fede. Cominciò a predicare e a dire: convertitevi perché il regno dei cieli è vicino.

Siamo davanti al messaggio generativo del Vangelo. La bella notizia non è «convertitevi», la parola nuova e potente sta in quel piccolo termine «è vicino»: il regno è vicino, e non lontano; il cielo è vicino e non perduto; Dio è vicino, è qui, e non al di là delle stelle. C'è polline divino nel mondo. Ci sei immerso. Dio è venuto, forza di vicinanza dei cuori, «forza di coesione degli atomi, forza di attrazione delle costellazioni» (Turoldo). Cos'è questa passione di vicinanza nuova e antica che corre nel mondo? Altro non è che l'amore, che si esprime in tutta la potenza e varietà del suo fuoco. «L'amore è passione di unirsi all'amato» (Tommaso d'Aquino) passione di vicinanza, passione di comunione immensa: di Dio con l'umanità, di Adamo con Eva, della madre verso il figlio, dell'amico verso l'amico, delle stelle con le altre stelle.

Convertitevi allora significa: accorgetevi! Giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. La notizia bellissima è questa: Dio è all'opera, qui tra le colline e il lago, per le strade di Cafarnao e di Betsaida, per guarire la tristezza e il disamore del mondo. E ogni strada del mondo è Galilea. Noi invece camminiamo distratti e calpestiamo tesori, passiamo accanto a gioielli e non ce ne accorgiamo. Il Vangelo di Matteo parla di «regno dei cieli», che è come dire «regno di Dio»: ed è la terra come Dio lo sogna; il progetto di una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani; una storia finalmente libera da inganno e da violenza; una luce dentro, una forza che penetra la trama segreta della storia, che circola nelle cose, che non sta ferma, che sospinge verso l'alto, come il lievito, come il seme. La vita che riparte. E Dio dentro.

Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli che gettavano le reti in mare. Gesù cammina, ma non vuole farlo da solo, ha bisogno di uomini e anche di donne che gli siano vicini (Luca 8,1-3), che mostrino il volto bello, fiero e luminoso del regno e della sua forza di comunione. E li chiama ad osare, ad essere un po' folli, come lui. Passa per tutta la Galilea uno che è il guaritore dell'uomo. Passa uno che sa reincantare la vita. E dietro gli vanno uomini e donne senza doti particolari, e dietro gli andiamo anche noi, annunciatori piccoli affinché grande sia solo l'annuncio. Terra nuova, lungo il mare di Galilea. E qui sopra di noi, un cielo nuovo. Quel rabbi mi mette a disposizione un tesoro, di vita e di amore, un tesoro che non inganna, che non delude. Lo ascolto e sento che la felicità non è una chimera, è possibile, anzi è vicina.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Convertitevi e venite dietro a me!

Il brano del Vangelo di questa domenica, detta Domenica della Parola, ci presenta gli inizi della predicazione di Gesù. L'evangelista colloca i primordi del ministero di Cristo in Galilea e racconta che «quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali». In questa regione, storicamente provata e inquinata dal continuo passaggio di popoli stranieri, rifulge la luce, come aveva predetto molti secoli prima il profeta Isaia: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (cf Is 9, 1). È l'oracolo che ascoltiamo nella liturgia della notte di Natale. La luce allora avvolse i pastori, primizia degli ascoltatori della parola del Signore e primizia dei credenti, ora la luce avvolge tutti gli uomini. Nel linguaggio biblico la luce è sinonimo di salvezza. Nel salmo responsoriale, infatti, abbiamo attribuito a Dio due termini: «Il Signore è mia luce e mia salvezza».

La luce è un bisogno fondamentale dell'uomo, del quale si dice, quando nasce, che è venuto alla luce. Dio si manifesta spesso nell'Antico Testamento come luce: egli è il roveto che arde senza consumarsi, è la colonna di fuoco che guida e accompagna il popolo nel suo cammino verso la terra promessa. Dio si è rivelato pienamente come luce in Gesù che è «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (cf Gv 1, 9). Gesù, infatti, dice di se stesso: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (cf Gv 12, 46).

Cristo Gesù, dunque, da questo momento dà inizio alla sua predicazione con l'invito perentorio: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».

Gesù, quindi, ci chiama alla conversione, ossia a ricominciare, a fare ritorno a Dio mediante un concreto cambiamento di mentalità e di azioni; invita a mettere in discussione noi stessi, a buttar via le speranze ingannevoli e a cercare la Speranza che non inganna. La nostra unica e sola speranza è Dio il quale lo si trova non al termine dei bei ragionamenti, ma vivendo umilmente attenti e disponibili alla sua Parola. Convertirsi significa allora passare dalle tenebre alla luce; dal buio dell'errore alla luce di Dio che è verità, dalle tenebre dell'egoismo alla luce di Dio che è amore, dalla nera oscurità del peccato alla luce di Dio che è il Santo dei Santi. Ognuno di noi, dunque, deve diventare un «uomo nuovo», abbandonare le strade secondarie per accogliere Dio che gli viene incontro. È questo il significato del verbo ebraico shûb: tornare indietro, cambiare strada, cambiare vita. In greco il verbo è stato tradotto con metanoéite, che vuol dire cambiare mente e cuore, trasformarsi dentro, vivere le beatitudini e avere la sicurezza solo in Dio. A questo cambiamento, trasformazione, conversione, sono chiamati tutti i discepoli di Cristo Gesù. Dicevano i rabbini al tempo di Gesù: «È il popolo che fa regnare il re, e non il re che fa regnare se stesso»; occorre quindi convertirsi a Dio per permettere a Dio di regnare su di noi: così «viene» il regno di Dio!

E questo è quanto è accaduto ad alcuni credenti, i primi che hanno accolto il Vangelo di Gesù e si sono messi alla sua sequela. L'evangelista, infatti, annota che Gesù «mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare... Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò». A loro, il Maestro, rivolge la parola autorevole: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». A questo invito, Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, rispondono prontamente: «Ed essi subito lasciarono le reti... la barca e il loro padre e lo seguirono». Essi non possono comprendere subito fino in fondo il senso di questa chiamata. Eppure Matteo dice che accettano «subito» l'invito del Maestro, cambiano vita, abbandonano tutto e tutti e, con piena disponibilità, si mettono al suo seguito.

È da notare che il Signore chiama uomini poveri e fragili «erano infatti pescatori». Gesù cerca i suoi più stretti collaboratori tra la gente comune, non tra gli scribi, i farisei e i leviti, incaricati del culto. Alcuni di questi sono addirittura classificati tra i «peccatori pubblici», come il pubblicano Levi-Matteo.

Anche noi, come cristiani, siamo collaboratori di Cristo. Abbiamo coscienza di questa responsabilità? Spesso noi sembriamo consumatori di culto, invece di essere persone vive che hanno sentito una chiamata; sembriamo gente mossa da abitudini religiose invece di essere annunciatori attivi del Regno di Dio. Ma come dobbiamo essere collaboratori di Gesù? San Paolo, nella seconda lettura, riferisce con sofferenza le sue riflessioni sulla comunità cristiana di Corinto, che era una Chiesa divisa e una Chiesa divisa non annuncia Cristo. La nostra collaborazione, quindi, sta nell'essere una comunità che vive l'amore, la misericordia, il perdono, l'unità. L'apostolato cristiano non è una gara vanitosa a chi fa di più ma a chi vive concretamente il Vangelo. Se le opere di apostolato non nascono dalla carità vissuta, sono fatiche a vuoto, sono gesti sterili che non porteranno frutti perché sono staccati da Dio.

Ebbene, tutti coloro che nella libertà e per amore di Gesù rispondono prontamente alla sua chiamata, dovranno essere pronti a rinnovare quotidianamente la loro risposta, cioè a perseverare perché, dice il Signore: «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (cf Lc 21, 19).

Chiediamo al Signore di illuminare noi e le nostre comunità dalla sua Parola affinché seguendo lui, che è la luce del mondo, diventiamo segno di speranza e di salvezza per tutti coloro che dalle tenebre anelano alla luce.

Omelia di don Lucio D'Abbraccio

 

LITURGIA E LITURGIA DELLA PAROLA DELLA III DOMENICA DEL T.O. DOMENICA DELLA PAROLA 26 GENNAIO 2020

tratto da www.lachiesa.it