10 novembre 2019 - XXXII Domenica del T.O.: «sei un Dio che vivi di noi»

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A ben vedere, i sadducei non solo non credono alla risurrezione, ma hanno una comprensione sbagliata del matrimonio. O, per dirla meglio, proprio perché non credono alla risurrezione, non riescono a cogliere il vero senso del matrimonio. Il matrimonio è, per chi è chiamato a esso, un luogo di iniziazione all'amore, alla donazione di sé, al dire a un'altra persona la sua unicità e a dare la propria totalità. In questa vita, ci spiega Gesù, noi "prendiamo" marito e moglie. Nella vita futura i nostri rapporti saranno trasfigurati. Sussisterà il dono. Ciò che abbiamo donato in questa vita non cesserà, ma risplenderà della luce del Donatore che era segretamente (e sacramentalmente) presente in ogni dono di sé. 

Omelia di Robert Cheaib

 

Vita eterna, non durata ma intensità senza fine

I sadducei si cimentano in un apologo paradossale, quello di una donna sette volte vedova e mai madre, per mettere alla berlina la fede nella risurrezione. Lo sappiamo, non è facile credere nella vita eterna. Forse perché la immaginiamo come durata anziché come intensità.

Tutti conosciamo la meraviglia della prima volta: la prima volta che abbiamo scoperto, gustato, visto, amato... poi ci si abitua. L'eternità è non abituarsi, è il miracolo della prima volta che si ripete sempre. La piccola eternità in cui i sadducei credono è la sopravvivenza del patrimonio genetico della famiglia, così importante da giustificare il passaggio di quella donna di mano in mano, come un oggetto: «si prenda la vedova... Allora la prese il secondo, e poi il terzo, e così tutti e sette». In una ripetitività che ha qualcosa di macabro. Neppure sfiorati da un brivido di amore, riducono la carne dolorante e luminosa, che è icona di Dio, a una cosa da adoperare per i propri fini. «Gesù rivela che non una modesta eternità biologica è inscritta nell'uomo ma l'eternità stessa di Dio» (M. Marcolini).

Che cosa significa infatti la «vita eterna» se non la stessa «vita dell'Eterno»? Ed ecco: «poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio», vivono cioè la sua vita. Alla domanda banale dei sadducei (di quale dei sette fratelli sarà moglie quella donna?) Gesù contrappone un intero mondo nuovo: quelli che risorgono non prendono né moglie né marito. Gesù non dice che finiranno gli affetti e il lavoro gioioso del cuore. Anzi, l'unica cosa che rimane per sempre, ciò che rimane quando non rimane più nulla, è l'amore (1 Cor 13,8).

I risorti non prendono moglie o marito, e tuttavia vivono la gioia, umanissima e immortale, di dare e ricevere amore: su questo si fonda la felicità di questa e di ogni vita. Perché amare è la pienezza dell'uomo e di Dio. I risorti saranno come angeli. Come le creature evanescenti, incorporee e asessuate del nostro immaginario? O non piuttosto, biblicamente, annuncio di Dio (Gabriele), forza di Dio (Michele), medicina di Dio (Raffaele)? Occhi che vedono Dio faccia a faccia (Mt 18,10)? Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi. In questa preposizione «di», ripetuta cinque volte, in questa sillaba breve come un respiro, è inscritto il nodo indissolubile tra noi e Dio.

Così totale è il legame reciproco che Gesù non può pronunciare il nome di Dio senza pronunciare anche quello di coloro che Egli ama. Il Dio che inonda di vita anche le vie della morte ha così bisogno dei suoi figli da ritenerli parte fondamentale del suo nome, di se stesso: «sei un Dio che vivi di noi» (Turoldo).

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

“Poi si avvicinarono alcuni sadducei, i quali negano che ci sia risurrezione, e lo interrogarono”. Tutto il cristianesimo si poggia su un’unica cosa: la resurrezione di Cristo. Un cristianesimo senza la resurrezione non è più cristianesimo. Può avere mille valori, mille lati positivi, invogliare a fare il bene, ad amare, a lasciarsi amare, a porgere l’altra guancia, a compiere miracoli, a stare vicino alla gente, ad essere motivo di aiuto per tanti, ma è la resurrezione l’unico grande pilastro su cui la nostra fede regge o cade. Ecco perché l’interrogativo dei sadducei del Vangelo di oggi riguarda in verità ognuno di noi in maniera essenziale. Tu credi che Gesù sia risorto dai morti? Credi nella resurrezione? Nessuno può rispondere per un altro. Ciascuno deve domandarsi se fa o no parte della setta dei sadducei. Ma forse il Vangelo di oggi ci aiuta a chiarire un grande fraintendimento sulla resurrezione. Pensare che essa sia semplicemente la stessa vita di oggi semplicemente liberata dagli ingombri dei problemi e della morte, allora si sbaglia completamente. Una vita retta dalle medesime logiche di possesso (pensate alla povera moglie del vangelo di oggi) sarebbe solo un inferno, non un paradiso. La resurrezione è una “vita nuova”, una vita radicalmente diversa che si innesta su questa nostra vita. Esattamente come la spiga di grano è qualcosa di infinitamente diverso dal seme eppure nasce da lì. Come la farfalla che è radicalmente diversa dal bruco, eppure nasce da lì. La fede è credere nel campo di grano quando in mano hai solo una manciata di chicchi. È sentire il profumo del pane quando è ancora inverno e il seme sembra solo scomparso. È vedere più lontano del qui e ora e vivere con questa profonda memoria. È la resurrezione di Cristo che dà una profondità alla nostra vita, che la rende affidabile, degna, vivibile. Diversamente perché dovremmo accettare l’inverno, la fatica, l’attesa, l’assenza, se non ci fosse nessuna estate e nessuna mietitura? “Dio è dei vivi non dei morti, perché per lui tutti vivono”. #dalvangelodioggi

Omelia di Don Luigi Maria Epicoco

 

Senza fede nella risurrezione, non si potrebbe donare la vita

La domanda sul futuro è sempre presente nel cuore di ciascuno e può caricarsi di angoscia o di speranza a seconda della persona a cui la rivolgo. Se pongo il quesito a un cartomante o solamente a me stesso, il rischio è di rimanere ingabbiato nelle maglie dell’illusione e della disperazione: nessuno può avere uno sguardo realistico sul tempo che verrà, a meno che non si tratti di una traiettoria a breve distanza. Può svelare il senso di ciò che ancora non è solo chi è eternamente, il Signore della storia, che con l’incarnazione del Figlio ha visitato il tempo dell’uomo e con la sua risurrezione l’ha orientato verso l’eterno.

È proprio sulla risurrezione che Gesù viene provocato dai sadducei, una setta che non credeva alla vita nell’aldilà, sia perché non se ne fa menzione nei primi cinque libri della Bibbia, i soli da loro ritenuti normativi, sia perché, essendo essi facoltosi, la risurrezione avrebbe comportato per loro un giudizio di condanna per uno stile esistenziale incentrato sul benessere materiale. Viene presentato a Gesù il caso paradossale di una donna che, morto il marito, viene presa in moglie in successione dagli altri sei fratelli perché fosse data una discendenza al primo marito, secondo la legge del levirato: «la donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie?». Notiamo alcune distorsioni in questo ragionamento. Anzitutto una prevalenza del verbo ‘prendere’, come se la donna fosse un oggetto, il che non lascia spazio al dono, senza il quale non è possibile concepire l’amore; dunque non c’è neanche l’ombra dell’amore nel caso presentato, essendo l’unico interesse quello di preservare l’asse ereditario. Ancora, l’inganno maggiore è pensare che la vita futura sia una semplice continuazione di quella terrena, in cui si mantengono intatti i rapporti costruiti quaggiù, con la difficoltà di ritrovare in cielo le stesse ‘magagne’ che non abbiamo saputo risolvere qui. In realtà i sadducei intendono colpire su questo punto i farisei, i quali ritenevano che la vita ultraterrena fosse una rianimazione dei cadaveri, senza un reale salto qualitativo.

Gesù dà una risposta che è rivelatrice di una verità definitiva, andando molto oltre la questione di cui è investito. È proprio dello stile del Maestro non farsi ingabbiare dai ragionamenti tendenziosi, mostrando così una sapienza che non può che venire dalla sua natura divina. Egli richiama infatti la paternità di Dio quale orizzonte di senso di qualsiasi discorso sull’eternità. Il Padre appare indirettamente nella prima parte della risposta, allorché Gesù menziona per tre volte i figli e parla al passivo di coloro che «sono giudicati degni della vita futura», sentenza che può emettere unicamente Dio. Costoro vivono ma in una condizione diversa, simile a quella degli angeli, non essendoci più bisogno dell’incontro sessuale per la trasmissione della vita, poiché in cielo si partecipa senza alcuna mediazione della perenne fecondità dell’esistenza divina. Dunque è del tutto erroneo proiettare le nostre categorie umane al mondo futuro; se l’amore rimane, esso però sarà liberato da ogni imperfezione e, pur nella continuità tra qui e lì, la categoria che può aiutarci a pensare l’eternità è quella del superamento. D’altra parte, Gesù non ha sempre superato le dispute con cui i detrattori cercavano di farlo cadere, indicando l’amore incondizionato per Dio e per il prossimo come soluzione ad ogni problema umano? Nella seconda parte della risposta, Cristo introduce un’altra categoria, presentandola come chiave interpretativa della vita eterna: la relazione. Egli richiama la rivelazione divina a Mosè nel roveto ardente e soprattutto il nome con cui si è fatto conoscere: «il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe». Un Dio che fa alleanza con gli uomini, si lega a loro e, siccome Egli è il Vivente, «tutti vivono per lui», che non può fare a meno di trascinare nella dimensione eterna i figli, depositari della sua promessa di vita.

Questo vangelo ci immette nel cuore del mistero, che da sempre ha affascinato e inquietato il cuore degli uomini. Gesù ha però tracciato la strada per inoltrarsi in un tale percorso: non è la paura o la conoscenza intellettuale, ma la relazione d’amore. Poiché Dio si relaziona a me e mi dà vita amandomi, se io amo qualcuno gli do vita e ricevo dal Signore il rinnovamento della sua promessa di eternità. Oggi vige una mentalità che non alza lo sguardo verso l’infinito. Ma come è possibile credere all’amore senza credere alla risurrezione? Se così fosse, non si potrebbe dare la vita per amore.

Omelia di don Antonino Sgrò