1 luglio 2018 - XIII Domenica del T.O.: da ricco che era...

News del 30/06/2018 Torna all'elenco delle news

Da ricco che era. L'espressione è tratta dalla seconda lettera dell'apostolo Paolo ai Corinzi (8,9) seconda lettura di oggi: l'apostolo invita i cristiani di Corinto a soccorrere i fratelli di Gerusalemme, al momento bisognosi di aiuto. "Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri", spiega, "ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza". E ne dà la motivazione: prendete esempio dal "Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà".

Il Figlio di Dio si è fatto povero, costringendo la sua divinità entro i limiti di un uomo; è vissuto da povero, ma fu tanto generoso da dare la sua stessa vita: un gesto con cui ha arricchito spiritualmente innumerevoli persone. Da ricco che era, Gesù si è fatto povero per sollevare molti. Da ricchi che erano (di soldi, d'ingegno, di prospettive, di capacità, di potere) non si contano i cristiani che nei secoli hanno imitato il loro Signore. La storia si ripete: nei suoi errori ma anche, pur se spesso sottaciute, nelle sue opere di bene.

Il vangelo (Marco 5,21-43) narra due "opere di bene" compiute da Gesù in un villaggio sulle rive del lago: la guarigione di "una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni", e la risurrezione della dodicenne figlia di Giàiro, un capo della locale sinagoga. Entrambi i miracoli sono basati sulla fede dei richiedenti: "Figlia, la tua fede ti ha salvata", dice Gesù alla donna; "Non temere, soltanto abbi fede", dice al disperato padre della fanciulla, andato dal maestro a chiederne la guarigione e poi informato che, prima di ottenerla, la fanciulla era morta.

La fede dei due si presta a qualche considerazione. Quella della donna si manifesta nel fatto che ella lo avvicina mentre è attorniato dalla folla; è convinta di poter guarire anche solo toccando il suo mantello, ed è quello che le riesce di fare, standogli alle spalle. La sua è una fede primitiva, quasi superstiziosa, direbbero i tanti censori delle espressioni popolari della devozione, quelli che vorrebbero abolire le reliquie, le processioni, le candele accese davanti alle immagini dei santi eccetera. Evidentemente Gesù non è di questo parere, ben sapendo che le persone non sono tutte uguali, e ciascuna si rivolge a Dio a modo proprio, secondo la propria personalità, secondo la formazione ricevuta.

L'altro caso presenta un miracolo avvenuto non per la fede della beneficiaria, ma di un'altra persona, nel caso il padre. Basterebbe questo episodio a motivare la preghiera che si fa per gli altri: quella pubblica (in ogni Messa, ad esempio, si prega per il papa, il vescovo, l'intero popolo cristiano e i defunti; le singole celebrazioni aggiungono poi di volta in volta intenzioni particolari) e quella privata (prima di chiedere per sé, nella preghiera personale si dovrebbe anzitutto lodare Dio e non dimenticare quanti riteniamo essere bisognosi dell'aiuto divino). Pregare per gli altri: è una forma alta, e possibile a tutti, della carità.

Omelia di mons. Roberto Brunelli

 

La fede è un contatto e uno sguardo che salvano

All’inizio un passaggio di Gesù «all’altra riva», come il passaggio dalla paura della morte al trionfo della vita che l’uomo vorrebbe fare. Lo spazio tra l’una e l’altra è occupato dal desiderio misto all’incertezza: ce la farò? Troverò qualcuno che mi traghetterà verso una vita liberata dalla minaccia della morte? Sono questi gli interrogativi che stanno dietro ad ogni richiesta sincera rivolta a Gesù, anche se espressi con linguaggi diversi, a seconda della condizione e sensibilità di ciascuno.

Giairo è uno «uno dei capi della sinagoga», abituato a parlare con tante persone e a pronunciare parole giuste e misurate, ma adesso a parlare è il cuore angosciato di un padre che vuole scongiurare la morte della figlia. Le parole supplichevoli sono corredate dalla prostrazione e dall’insistenza; non si cura che il guaritore a cui si rivolge sia quel Nazareno che stava creando così tanti problemi ai capi religiosi ed è convinto che il solo gesto dell’imposizione delle mani possa ridonare vita ad un’esistenza che non è ancora sbocciata. La fede di Giairo è ancora acerba come l’età della figlia, vede per adesso soltanto il guaritore, ma ciò che importa è che l’uomo faccia un tratto di strada con Gesù. La fede, infatti, parte da un bisogno di vita e implica un cammino col maestro. Si tratta il più delle volte di un cammino nel dubbio angosciante di chi non sa se il suo desiderio di salvezza verrà esaudito, ma facendo un passo dopo l’altro questa fede è chiamata a crescere attraverso altre esperienze condivise con Gesù. Lungo il tragitto c’è anche tanta folla, si affollano cioè idee, fatti e rumori diversi e contrastanti tra loro e con Gesù, che sta invece in silenzio. Il silenzio di Dio è per noi lo spazio della decisione e dell’attesa, in cui ci domandiamo se vale la pena credere e perseverare anche contro ogni evidenza.

Ed ecco che durante il cammino avviene un incontro, di cui sarà spettatore e fruitore pure Giairo, e con lui ognuno di noi. Una donna è affetta da emorragia, perde vita da 12 anni (numero che simboleggia Israele, che lontano da Dio muore), e insieme ad essa la speranza di guarire, perché i molti interventi medici non hanno giovato. Pur «spendendo tutti i suoi averi», ha sperimentato che i rimedi sono peggiori della malattia, perché le soluzioni umane non bastano se non si è incontrato sui propri passi colui che salva. Inoltre il suo male la rende impura secondo la legge ebraica; tuttavia ella non si rassegna ad una sorte di maledizione e, guidata da un indomabile desiderio di vita, tocca il maestro. A differenza di Giairo non parla, non può farlo secondo i dettami della legge e forse per tutelare quel guaritore, che diventerebbe impuro a sua volta se avesse un contatto con lei. Dialogando con se stessa, si illumina alla sua coscienza una soluzione, che però non è l’ennesimo rimedio che promette un’ulteriore delusione, poiché la donna, «udito parlare di Gesù», ha creduto. Ha ascoltato e ha creduto. Mette in atto ciò che la sua sensibilità le permette di fare, un contatto almeno minimo col maestro, perché capisce che solo su di Lui può poggiare le sue mani sporche. Non solo guarisce, ma il dono di Dio supera ogni attesa perché Cristo la cerca con occhi innamorati di sposo. La fede è allora lasciarsi guardare da Lui, nella consapevolezza che quel volto è la vera guarigione. Come sottolineano i discepoli, nella loro visione grossolana, sarebbe stato impossibile ad una creatura umana accorgersi di quel tocco, ma a Dio non sfuggono i particolari, Lui che si sofferma sul piccolo, anzi che lascia che una ‘piccola’ abbia il potere di fermarlo. Adesso il contatto tra i due è diventato una relazione di sguardi e di verità e Gesù le annuncia la verità più grande: «la tua fede ti ha salvata». Egli rende pubblica, quasi plateale la guarigione per far comprendere a tutti che il puro e l’impuro non possono essere una barriera tra l’uomo e Dio e vanno superati.

Ecco la fede necessaria a Giairo, che è chiamata a sfidare l’evidenza del fallimento, dal momento che Gesù e l’uomo sono raggiunti dalla notizia del decesso della bambina. Soltanto Dio può pronunciare una parola che vada oltre la morte, rivolgendo al padre l’invito umanamente assurdo di perseverare nella fede. Gesù interrompe i riti di lutto e rivela che la morte è in realtà un sonno che anticipa il risveglio. Prende per mano la fanciulla, trasmettendole la sua potenza di vita, la fa risorgere, la restituisce alla sua normalità, perché ella si muove e prende cibo. La fede ti ridona la forza e la bellezza della vita.

Omelia di don Tonino Sgrò tratta da www.reggiobova.it

 

La morte di una bambina e le uniche parole che salvano

La casa di Giairo è una nave squassata dalla tempesta: la figlia, solo una bambina, dodici anni appena, è morta. E c'era gente che piangeva e gridava. Di fronte alla morte Gesù è coinvolto e si commuove, ma poi gioca al rialzo, rilancia, e dice a Giairo: tu continua ad aver fede. E alla gente: la bambina non è morta, ma dorme. E lo deridevano. Allora Gesù cacciò tutti fuori di casa. Costoro resteranno fuori, con i loro flauti inutili, fuori dal miracolo, con tutto il loro realismo. La morte è evidente, ma l'evidenza della morte è una illusione, perché Dio inonda di vita anche le strade della morte.

Prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui. Gesù non ordina le cose da fare, prende con sé; crea comunità e vicinanza. Prende il padre e la madre, i due che amano di più, ricompone il cerchio degli affetti attorno alla bambina, perché ciò che vince la morte non è la vita, è l'amore.

E mentre si avvia a un corpo a corpo con la morte, è come se dicesse: entriamo insieme nel mistero, in silenzio, cuore a cuore: prende con sé i tre discepoli preferiti, li porta a lezione di vita, alla scuola dei drammi dell'esistenza, vuole che si addossino, anche per un'ora soltanto, il dolore di una famiglia, perché così acquisteranno quella sapienza del vivere che viene dalla ferite vere, la sapienza sulla vita e sulla morte, sull'amore e sul dolore che non avrebbero mai potuto apprendere dai libri: c'è molta più Presenza, molto più cielo presso un corpo o un'anima nel dolore che presso tutte le teorie dei teologi.

Ed entrò dove era la bambina. Una stanzetta interna, un lettino, una sedia, un lume, sette persone in tutto, e il dolore che prende alla gola. Il luogo dove Gesù entra non è solo la stanza interna della casa di Giairo, è la stanza più intima del mondo, la più oscura, quella senza luce: l'esperienza della morte, attraverso la quale devono passare tutti i figli di Dio. Gesù entrerà nella morte perché là va ogni suo amato. Lo farà per essere con noi e come noi, perché noi possiamo essere con lui e come lui. Non spiega il male, entra in esso, lo invade con la sua presenza, dice: Io ci sono.

Talità kum. Bambina alzati. E ci alzerà tutti, tenendoci per mano, trascinandoci in alto, ripetendo i due verbi con cui i Vangeli raccontano la risurrezione di Gesù: alzarsi e svegliarsi. I verbi di ogni nostro mattino, della nostra piccola risurrezione quotidiana. E subito la bambina si alzò e camminava, restituita all'abbraccio dei suoi, a una vita verticale e incamminata.

Su ogni creatura, su ogni fiore, su ogni bambino, ad ogni caduta, scende ancora la benedizione di quelle antiche parole: Talità kum, giovane vita, dico a te, alzati, rivivi, risorgi, riprendi il cammino, torna a dare e a ricevere amore.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 1 luglio 2018

tratto da www.lachiesa.it