15 settembre 2013 - XXIV Domenica del Tempo Ordinario: l'intima gioia di sapersi amati

News del 11/09/2013 Torna all'elenco delle news

L'ampio brano evangelico di oggi è costituito dall'intero capitolo 15 del vangelo secondo Luca, nel quale con tre parabole Gesù parla della gioia. Le prime due presentano storie parallele: un pastore lascia il gregge al sicuro e va alla ricerca di una pecora non tornata all'ovile; una donna rivolta la casa, per ricuperare una moneta che non trova più; e quando entrambi raggiungono lo scopo, invitano amici e vicini a far festa con loro. Il senso delle due storie è dato dallo stesso Gesù: "Io vi dico, così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte", cioè è stato ritrovato, ricuperato.

La terza parabola è quella celeberrima detta del figlio prodigo, pur se un titolo più appropriato la direbbe piuttosto la parabola del padre misericordioso. La vicenda è nota: un ricco proprietario terriero ha due figli, il minore dei quali pretende subito la sua parte di eredità e va a sperperarla in dissolutezze, sino a trovarsi in miseria, costretto a lavori umilianti, ridotto alla fame. "Allora ritornò in sé e disse: Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati". Quel figlio prodigo sa di non poter pretendere nulla da suo padre; potrebbe aspettarsi un suo rifiuto a riaccoglierlo, e magari anche una mano di legnate; considera già una fortuna che gli dia almeno da vivere. E invece, "Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò"; non gli lasciò neppure il tempo di concludere il discorsino che si era preparato, e anzi gli fece indossare il vestito più bello, lo ornò con un anello al dito e ordinò di imbandire subito un banchetto con musica e danze.

In questo padre, è chiaro, Gesù intende celebrare l'infinita bontà di Dio, che rispetta la libertà dell'uomo, compresa la libertà di sbagliare, ma trepida e spera nel suo ravvedimento, e quando avviene perdona, dimentica, fa festa. E' altrettanto chiaro che quel figlio prodigo siamo noi: tanto o poco, prima o poi, tutti ci siamo allontanati da Dio, sperperando in esperienze degradanti le ricchezze di mente e di cuore ricevute da lui. Solo un ritorno a lui può ridarci la dignità perduta: lui, che non castiga e anzi è pronto a riaccoglierci a braccia aperte.

Stare con lui, godere del suo amore, è il massimo della nostra realizzazione, è quanto di meglio questa vita ci può offrire. Non sempre lo capiamo, come - per tornare alla parabola - non lo capisce l'altro figlio, il quale si indigna col padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso!" "Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".

In termini di stretta giustizia, umanamente parlando, forse l'indignato potrebbe avanzare qualche ragione; ma nei rapporti con Dio la giustizia, quando il colpevole si ravvede, è superata dalla misericordia. E così deve essere anche tra i cristiani: i torti vanno annullati dal perdono, il risentimento è da vincere con la bontà. Chi ritenesse di potersi riconoscere nel figlio fedele, deve avere l'onestà di riconoscersi anche nell'altro, senza dimenticare quante volte ha ricevuto dal Padre l'abbraccio del perdono. E riflettere: chi è fedele a Dio, non avrà forse gli applausi di questo mondo, non avrà medaglie e pubblici encomi; ma può sempre contare sull'intima gioia di sapersi amato: "Figlio, tu sei sempre con me!"

Omelia di mons. Roberto Brunelli


Costui accoglie i peccatori e mangia con loro

Nella domenica XXIV del tempo ordinario, leggiamo il cap.15 del Vangelo di Luca, certamente uno dei testi più alti della letteratura di ogni tempo e per questo più studiati da ogni punto di vista. Qui la rivelazione cristiana raggiunge il suo vertice: possiamo conoscere a memoria queste parabole, ma ogni volta che le leggiamo, si aprono per noi orizzonti nuovi. A noi che viviamo in quest'epoca post-moderna, che ci poniamo il problema di Dio, di chi è Dio, di come parlare di Dio, Gesù parla di Dio, ci introduce nell'intimità più profonda di Dio. Eppure il nome "Dio" non è presente in tutto il capitolo: è solo sfiorato al termine delle prime due parabole con l'accenno alla "gioia in cielo" e agli "angeli di Dio". Ed è la prima, grande, sconvolgente lezione che ci viene da questa pagina: Gesù non vuole farci una lezione su Dio misericordioso, ce lo rende visibile "accogliendo i peccatori e sedendo a mensa con loro", ce lo rende sperimentabile facendoci gustare la gioia del sentirci cercati quando ci siamo smarriti, del sentirci amati quando noi stessi non ci amiamo più o siamo coscienti di aver perso qualsiasi motivo che ci renderebbe amabili, dell'essere introdotti in un'esperienza che noi non ci saremmo mai immaginata possibile. Gesù non ha parlato di Dio, lo ha mostrato: è Lui la Parola di Dio. Non ha elaborato trattati sull'esperienza di Dio, lo ha fatto sperimentare. Gesù ha aperto la via ad un modo nuovo di parlare di Dio: narra Dio vivendo la sua storia che è condivisione con la storia di tutti gli uomini. Così, Gesù narra di un uomo che ha perduto una pecora e la cerca finché non la trova e, pieno di gioia, se la pone sulle spalle e torna a casa; narra di una donna che perde una moneta e la cerca finché non la trova e chiama le amiche a condividere la sua gioia; narra di un uomo che ha due figli ed è pieno di gioia solo quando, mostrando tutto il suo amore, può far sperimentare al minore che cosa significhi avere un padre, e al maggiore può far aprire il cuore per gustare la gioia di essere figlio. Gesù fa sussultare il cuore di un uomo, di una donna, di un padre (ma come può essere così visceralmente amorevole un padre se non perché ha gustato interiormente lo Spirito dell'Amore?), di due figli; Gesù parla della casa, dell'ansia, della preoccupazione, delle difficoltà, dei fallimenti, dell'amicizia, della musica, della danza, della gioia, si inserisce nella normalità della vita senza enfatizzare niente, neppure parla dell'esito ottenuto dall'incontenibile forza dell'amore che muove tutta la scena; Gesù parla un linguaggio normale che muove ciò che di più profondo sta nell'uomo e sentiamo che in realtà sta parlando di Dio. E raggiungiamo così il cuore dell'esperienza cristiana: in Gesù Dio si è fatto uomo e quindi può essere narrato da Lui. Narrando Dio con la propria vita, Gesù mette in crisi le immagini di Dio che gli uomini si costruiscono con la propria ragione e tutte le proiezioni che tendono ad attribuire a Dio un volto fatto ad immagine dell'uomo mentre nel cuore della sua narrazione di Dio mette l'annuncio dell'infinita misericordia di un Padre, totalmente gratuita, sconvolgente fino alla follia, che scandalizza gli scribi e i farisei, coloro per i quali Dio è la Legge, e per i quali Gesù è motivo di mormorazione perché "accoglie i peccatori e mangia con loro". Proprio per questo Gesù narra le sue parabole, per mostrare che "accogliere i peccatori e mangiare con loro" è il senso della sua vita e per convincere i suoi accusatori che il cammino che egli sta percorrendo, per il quale essi lo condannano, è il cammino di Dio. Ai loro occhi di uomini della Legge, Gesù appare come il figlio che si è allontanato, errante, perduto. In realtà, agli occhi di Dio, è il Figlio che ama, obbediente, che si impegna totalmente per far conoscere il cuore di Dio. Per dire agli uomini che Dio li ama come un padre ama i suoi figli, non può stare lontano da loro: bisogna che diventi uno di loro, che si sieda alla loro mensa. Se si sono allontanati da lui, bisogna che egli li raggiunga sulla strada sulla quale si sono perduti: bisogna che si incammini sulla strada del figlio prodigo. Ma per Gesù questa è la logica dell'amore: non è l'egoismo che lo allontana dalla casa del padre e neppure il desiderio di essere autonomo, ma la relazione filiale che lo lega al padre, il suo stupore davanti a lui e il suo cuore fraterno. E' questo il dinamismo che lo spinge verso coloro che sono perduti, accettando il rischio di essere assimilato a loro. Questo raggiungerà il suo vertice sulla croce come chiaramente dice Luca quando alla vigilia della passione riferisce queste parole di Gesù: "Io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato fra gli empi. Infatti, tutto quello che mi riguarda, volge al compimento" (Lc.22,37). In questo momento Gesù è totalmente identificato con coloro che sono rigettati, con i peccatori, con colui che si è allontanato dalla casa del padre: eppure, proprio in questo momento in cui si identifica con i lontani, dal suo cuore di "fratello maggiore" scaturisce l'Alleanza, la fraternità che strappa tutti gli uomini alla morte. Sì, perché Gesù è anche "il fratello maggiore" ma, a differenza del fratello maggiore della parabola, egli conosce l'Amore di cui è pieno il cuore del Padre, che rigenera, risuscita i morti: il cuore di Gesù in relazione perfetta con il Padre è in totale osmosi con Lui. Così il suo cuore, meravigliosamente filiale, è pure meravigliosamente fraterno ed è felice di ascoltare il Padre che gli dice: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto quello che è mio, è tuo".

Dal grido di festa del Padre germina il Vangelo di Pasqua: "Tuo fratello era morto ed è tornato in vita".

Questo splendido cap.15 di Luca si ricollega con il precedente: Gesù è Colui che realizza il progetto del Padre di fare dell'umanità una famiglia di fratelli seduti alla mensa del Padre per gustare la gioia della condivisione dei beni del suo Amore. Ma adesso sappiamo che questo progetto si realizza attraverso la follia del Figlio che si perde sulle strade del mondo per cercare i fratelli perduti, che muore in croce per essere andato a cercarli.

Raccontando la parabola del padre che aveva due figli, Gesù narra la sua storia, la storia dell'umanità e narra Dio: narra la nostra storia con Lui che continua a perdersi con noi e per noi, per fare con noi la storia di Dio.

Leggendo questa pagina corriamo sempre il rischio di ridurla ad un insegnamento morale: è invece il lieto annuncio di Gesù, Cristo, crocifisso e risorto, l'annuncio della follia dell'Amore concretamente vissuto da Gesù, per narrarci che Dio è solo Amore.

Omelia di mons. Gianfranco Poma


Quel padre che difende la libertà

Si è persa una pecora, si perde una moneta, si perde un figlio. Si di­rebbero quasi delle sconfit­te di Dio. E invece l'amore vince proprio perdendosi dietro a chi si era perduto. Il Dio di queste parabole è un Dio che và dietro anche a uno solo. Uno, uno solo di noi, e per di più sbanda­to, è sufficiente a mettere Dio in cammino.

Un uomo aveva due figli.

Questo inizio, semplicissi­mo e favoloso, apre la pa­rabola più bella. Nessuna pagina al mondo raggiunge come questa il centro del nostro vivere, nessuna lascia trasparire come questa il cuore di Dio. Un Dio dif­ferente, diverso non solo da quello dei Farisei, ma an­che dall'immagine che noi ancora ci portiamo in cuore: un Padre che non vuole una casa abitata da figli­ servi, obbedienti e scontenti, ma da figli-liberi, gioiosi e amanti. Il suo dramma sono due figli en­trambi insoddisfatti, forse perché si credono servi.

Il più giovane se ne va, un giorno, in cerca di felicità. Questa crisi del ribelle l'abbiamo tutti vissuta, e spes­so il gesto di rivolta non e­ra che il preludio a una dichiarazione d'amore. Il Pa­dre non si oppone, non è mai contro la libertà.

Ma la storia ha una svolta drammatica: il figlio si tro­va a pascolare i porci. Il li­bero ribelle è diventato ser­vo, affamato, «può rubare le ghiande ai porci, ma non può accontentarsi, come loro, delle sole ghiande. Crudeltà questa? No, Prov­videnza» (Mazzolari). L'uo­mo nasce con il cuore ma­lato di cose grandi e le pic­cole non saziano.

Allora si ricorda del pane di casa, e si mette in cammi­no. Al padre non importa il motivo per cui il figlio ri­torna, se per fame o per a­more, se per paura o per pentimento, a lui basta che si metta in viaggio, e lo «ve­de quando è ancora lontano».

Padre, non sono degno, trat­tami da servo. E lui lo in­terrompe, per convertirlo proprio dal suo cuore di servo, per restituirgli un cuore di figlio, un cuore in festa. Per questo non ema­na verdetti, né di condanna né di assoluzione, perché il primo sguardo di Dio non si posa mai sul peccato del­l'uomo, ma sempre sulla sofferenza, per guarirla.

Il fratello maggiore torna dai campi ed entra in crisi: «io ti ho sempre ubbidito, e tu non mi hai dato neanche un capretto». Ha misurato tutto sulla contabilità del dare e dell'avere, come un salariato. Il padre vuole sal­vare anche lui dal suo cuo­re di servo: «tu sei sempre con me, tutto ciò che è mio è tuo». Tutto! Avrà capito?

Padre, non sono degno, ma mi prendo lo stesso il tuo abbraccio, la veste nuova, la festa. Sono l'eterno pro­digo. Sono la tua agonia e la tua gioia. Sono il tuo fi­glio. Grazie di essere Padre a questo modo, un modo davvero divino.
 

Omelia di padre Ermes Ronchi


Liturgia e Liturgia della Parola della XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C): 15 settembre 2013