9 giugno 2013 - X Domenica del Tempo Ordinario: Al di là del dolore e della morte

News del 06/06/2013 Torna all'elenco delle news

Le esperienze di atrocissimo dolore devono predisporci a considerare che noi siamo del tutto precari e provvisori, che "questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?" (Lc 12, 20). Come diceva Giobbe "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, come piacque al Signore così è avvenuto" e dovremmo considerare anche come improvvisa e regolare la possibilità del trapasso. Insomma dovremmo vivere sempre desti e pronti, percorrendo ogni singolo giorno come se fosse l'ultimo. Perché di fatto potrebbe esserlo.
Ma soprattutto dovremmo ravvivare in noi stessi ogni momento, e non solo nelle circostanze luttuose, la fede nel Dio Vivente che ha sconfitto la morte e la speranza nella vita eterna dovrebbe essere argomento ordinario. Proprio l'esperienza improvvisa del dolore e della morte dovrebbe indurci a consolidarci nella fede, per trovare solo nel Signore Risorto consolazione e appagamento.
Come potremmo trovare allevio e conforto se non nelle parole della fede in Colui che ha vinto la morte?

"Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi" (Sap 1, 12); "Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui" (Lc 20, 27 e ss.); "Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi" (Mc 12, 27); "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva" (Ez 34, 11). Questi e altri passi della Scrittura affermano che in Dio non vi è la morte, ma la vita. Dio stesso è definito il Vivente, capace solamente di dare vita e sussistenza, per il quale la morte non ha più l'ultima parola sull'uomo.
Se questo è vero per il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, è ancora più esaltante in Gesù Cristo, Figlio del Dio Vivente, il quale vero Dio e vita eterna (1Gv 5, 19 - 20), essendo passato lui stesso dalla morte alla vita, avendo non schivato ma affrontato il buio del sepolcro deliberatamente e senza retorica per poi uscirne vittorioso ribaltandone la pietra possente. Cristo è insomma il Risorto, l'autore della vita che i Giudei avevano messo a morte, ma che Dio ha risuscitato dai morti per la salvezza del mondo intero (At 3, 15).
La contrapposizione morte - vita si evince, oltre che nelle affermazioni, negli episodi stessi degli uomini di Dio, come ad esempio quelli che c propone la liturgia odierna: la resurrezione del figlio della vedova di Zarepta da parte di Elia e il ritorno in vita del figlio della vedova di Nain per l'intervento prodigioso di Gesù. Vi sono particolari significativi che accomunano i due fatti narrati: in ambedue i casi si parla infatti di un GIOVINETTO, di una VEDOVA e anche, in un certo qual modo di una rassegnazione al dolore e alla morte. E in entrambi i casi si verifica il miracolo: la risurrezione.
Elia, fuggito alla persecuzione del re Acab per aver contrastato il paganesimo da questi introdotto in Israele, trova ristoro prima sulla riva del torrente Cherit dove un corvo gli porta da mangiare pene e carne (1 Re 17, 1 - 9), poi viene accolto da una vedova nella città di Zarepta. Questa gli dimostra di avere una grande fede nel Signore e di riconoscere nella sua persona un "uomo di Dio"; quindi lo accoglie nonostante lo stato di estrema indigenza e di penuria e lo rifocilla. Poco dopo il bambino della vedova viene colto da malore e cade privo di vita. A quel punto la donna, ormai disperata e forse rassegnata alla perdita del proprio figlioletto, si arrabbia contro se stessa sfogandosi con Elia: se il figlio è morto davanti ad "un uomo di Dio", ciò significa che lei ha commesso riprovevoli peccati ed errori al punto di meritare questa orrenda punizione. Questo era il pensare tipicamente dell'epoca. "Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidere mio figlio?" Elia compie il miracolo. Il fanciullo torna a vivere e la donna confida in Dio ora riconosciuto come amore, misericordia, vincitore della morte e datore della vita, il quale le si è presentato non per mezzo di un punitore, ma attraverso un profeta, un vero uomo di Dio.
Le vedove non godevano certo di un'ottimale posizione sociale in Israele poiché la perdita del marito equivaleva anche alla fine della tutela legale, della garanzia di giustizia. Che una vedova poi perdesse un figlio, era ancora più disastroso e desolante, poiché con la sua scomparsa ella perdeva anche la vita, la sua unica ragione di perseveranza. Nel profeta Elia Dio, risuscitando questo pargoletto, recupera alla madre la vita, qualificando se stesso come il Dio Vivente che misconosce la morte.
Così anche a proposito del figlio della vedova di Nain. Notiamo che ormai la bara del defunto si sta dirigendo verso la tomba, fra le lacrime e la disperazione della madre. Non vi è alcun riferimento, neppure lontano alla possibilità che il morto possa essere condotto da Gesù da parte dei portatori, dei parenti o di qualcuno degli astanti. Viene solamente condotto nel luogo della sepoltura. E' Gesù che prende l'iniziativa, commosso dal dolore di quella povera vedova. Le si avvicina e le intima di "non piangere!"
A differenza di Elia, Gesù non prega (forse l'unica volta che prega prima di un miracolo è quella della resurrezione di Lazzaro), ma semplicemente tocca la bara e ordina: "Fanciullo, dico a te, alzati." La resurrezione avvenuta è avalla ancora una volta la verità del Dio dei vivi e non dei morti. Ma adesso con molta più consistenza, perché il fare autoritario di Gesù, la cui parola ha potere sulla morte, annuncia la verità che proprio Lui, Figlio del Dio vivente, è vita eterna. Egli è Colui che trionferà sulla morte e che affermerà la vita e nel quale tutti quanti sono destinati a vivere. Cristo è Dio che ha dato la vita per sempre e tale dono di vita si protrae per sempre, perché la resurrezione è vita eterna. Dirà poi Paolo: "Cristo è risorto dai morti, primizia di quelli che dormono (che sono nella tomba). Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo è venuta la resurrezione dei morti. Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo tutti saranno vivificati " (1° Cor. 15:30, 20-22).
Cristo risorto ci assicura che la morte non potrà mai avere la prevalenza a meno che non lo vogliamo noi. E che il pianto non deve mai trasformarsi in disperazione ma lasciare lo spazio alla fiducia piena nella vita. 

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta 


Il Signore della compassione

Una donna, una bara, un corteo. Sono gli ingredienti di base del racconto di Nain che mette in scena la normalità della tragedia in cui si recita il dolore più grande del mon­do. Quel buco nero che in­ghiotte la vita di una madre, di un padre privati di ciò che è più importante della loro stessa vita. Quel freddo improvviso e spaventoso che ti stringe la gola e sai che d'ora in poi niente sarà più come prima.
Quella donna era vedova, a­veva solo quel figlio, che per lei era tutto. Due vite preci­pitate dentro una sola bara. Quante storie così anche og­gi, quante famiglie dove la morte è di casa. Perché que­sto accanirsi, questa dismi­sura del male su spalle fragi­li? Il Vangelo non dà risposte, mostra solo Gesù che piange insieme alla donna, e sono due madri che piangono, so­no due vedove. Gesù non sfiora il dolore, penetra den­tro il suo abisso insieme a lei. Entra in città da forestiero e si rivela prossimo: chi è il prossimo? Gli avevano chie­sto. Chi si avvicina al dolore altrui, se lo carica sulle spal­le, cerca di consolarlo, alle­viarlo, guarirlo se possibile. Il Vangelo dice che Gesù fu preso da grande compassio­ne per lei. La prima risposta del Signore è di provare do­lore per il dolore della donna. Vede il pianto e si commuo­ve, non prosegue ma si fer­ma, e dice dolcemente: don­na, non piangere. Ma non si accontenta di asciugare la­crime. Gesù consola liberan­do. Si avvicina a una perso­na che, forse, in cuor suo sta maledicendo Dio: «Perché a me, perché a me? Cosa ho fatto?» Nessun segnale ci dice che quella donna fosse credente più fervida di altri. Nessuno. Ciò che fa breccia nel cuore di Gesù, il Signore amante della vita, è il suo dolore. Quella donna non prega, ma Dio ascolta il suo gemito, la supplica universale e senza parole di chi non sa più pre­gare o non ha fede, e si fa vi­cino, vicino come una madre al suo bambino. Si accosta al­la bara, la tocca, parla: Ra­gazzo dico a te, alzati. Leva­ti, alzati in piedi, sorgi, il ver­bo usato per la risurrezione. E lo restituì alla madre, resti­tuisce il ragazzo all'abbrac­cio, all'amore, agli affetti che soli ci rendono vivi, alle rela­zioni d'amore nelle quali sol­tanto troviamo la vita.
E tutti glorificavano Dio di­cendo: è sorto un profeta grande! Gesù profetizza Dio, il Dio della compassione, che cammina per tutte le Nain del mondo, che si avvicina a chi piange, ne ascolta il gemito. Che piange con noi quando il dolore sembra sfondare il cuore. E ci convo­ca a operare «miracoli», non quello di trasformare una ba­ra in una culla, come lui a Nain, ma il miracolo di stare accanto a chi soffre, lascian­dosi ferire da ogni gemito, dal divino sentimento della compassione. 

Omelia di padre Ermes Ronchi 


Non piangere

Non c'è bisogno di versare lacrime per piangere. Il nostro cuore spesso si gonfia di dolore ed anche se il viso non è solcato da piccole gocce, la nostra anima piange. Quelle lacrime silenziose, invisibili non passano inosservate agli occhi di Dio. Il Signore non ha bisogno di tante parole, legge la nostra sofferenza dentro di noi e ci viene a consolare, aiutare, guarire, resuscitare. Si, resuscitare, quando la nostra vita va a rotoli, quando non sappiamo più dove sbattere la testa, quando abbiamo avuto un giornata pesante e non abbiamo sentito l'appoggio o l'aiuto di nessuno Egli ci dona la carica per andare avanti, per affrontare un nuovo giorno, per continuare a lottare nei valori e nei principi in cui si crede.
La preghiera più bella è quella silenziosa, fatta del dolore composto di una mamma che piange il proprio figlio, del bambino nelle favelas che cerca qualcosa da mangiare tra la spazzatura per sopravvivere fino al mattino dopo, del clandestino che affronta mille pericoli nella speranza di una nuova vita per sé e per la sua famiglia. Pregare Dio non significa urlare, pretendere, imporre che una cosa sia come vorremmo e magari come dovrebbe essere. Abituiamoci anche noi a non gridare la nostra rabbia, a educare il nostro prossimo con l'amore della parola, la dolcezza di un sorriso, l'esempio della Fede nella convinzione che dove non possiamo arrivare noi ci penserà Cristo. Ricordiamoci che non siamo onnipotenti e non possiamo risolvere tutti i problemi di questa terra o della nostra famiglia, affidiamoci a Gesù e lasciamo che operi al posto nostro. Non c'è mai una situazione troppo difficile o sulla quale sia inutile intervenire, ma siamo consapevoli che spesso si incontrano muri così alti, tanto da farci prendere dalla rabbia e dalla disperazione perché non sappiamo come affrontarli. Dobbiamo solo aver pazienza, usare ancora più amore e dolcezza nei confronti del nostro prossimo, ed il Signore, quando lo riterrà opportuno, farà il resto.
Con i ragazzi che ho in affidamento mi trovo spesso in situazioni dinanzi alle quali non ho una soluzione, non so come agire, non so cosa dire o fare. A volte adottano comportamenti che ripetono nel tempo che non mi spiego. Il primo impulso sarebbe quello di arrabbiarmi, poi provo a capire le cause e spesso non ci riesco. Il dolore, la privazione dei loro cari, l'abbandono sono aspetti che hanno segnato fin nel profondo il loro essere e spesso agiscono in maniera che nemmeno loro sanno spiegarsi, vanno in direzioni completamente opposte a quei valori che ostinatamente cerchiamo di insegnare loro. Perché? Abbiamo fallito noi? Non credo, altrimenti non si spiegherebbe come mai alcuni di loro recepiscano e mettano in pratica ciò che venga loro proposto come regola di vita, ed altri no. Il problema è radicato, contorto come i rovi del bosco dentro i loro cuori e dipanare simili matasse non è facile, certo non ci riusciremo mai con la forza, la cattiveria, la violenza. Ma a volte non basta nemmeno tutto l'amore possibile e non dobbiamo farcene un cruccio, anche se personalmente ci soffro terribilmente, perché la situazione è più grande di noi.
Come potrebbe una mamma resuscitare il proprio figlio, e figuriamoci se non farebbe di tutto per poterlo riavere in vita, finanche dare la propria per lui.
A cosa serve disperarsi, urlare, imprecare, picchiare qualcuno per rabbia? Serve solo a dare un cattivo esempio. La Fede è ben altra cosa. E' amorevole attesa nella convinzione che tutto è nelle Mani di Dio, e sarà Lui a risolvere la situazione come e quando lo riterrà opportuno. L'amore di una mamma che con grande dolore vede fare al proprio figlio cose non giuste come il rubare, non studiare, ribellarsi e pazientemente gli sta vicino, cammina accanto a lui come si cammina accanto alla bara, ma con la speranza della resurrezione che avverrà quando Gesù vorrà. Tanto la resurrezione dell'anima dopo la vita terrena, quanto la resurrezione nel seguire la retta via.

Omelia di
don Riccardo Ripoli 
 

LiturgiaLiturgia della Parola della X Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 9 giugno 2013

tratti da www.lachiesa.it

La Cappellla del Sacro Monte di Varallo (VC), 1572,  dedicata alla Resurrezione del figlio della vedova di Naim