3 marzo 2013 - Terza Domenica di Quaresima: Conversione, la fatica dell'amore

News del 25/02/2013 Torna all'elenco delle news

Le letture di oggi ci invitano alla conversione.
Ci siamo domandati quando è cambiato qualcosa nella nostra vita? La nostra vita cambia quando succede qualcosa, quando un avvenimento positivo o negativo ci segna da vicino, o una parola entra nella nostra vita.
La prima lettura ci parla di Mosè che dentro alla vita di tutti i giorni, semplice, ripetitiva, faticata coglie l'opportunità di ascoltare una parola di Dio rivolta a lui; la seconda lettura, che ci invita ad ascoltare nella Scrittura la parola che nei secoli Dio ha rivolto all'uomo; il vangelo, nel quale Gesù, raccontando di storia contemporanea, fa un invito forte al cambiamento e alla conversione. Questi tre luoghi allora diventano per noi tre atteggiamenti fondamentali scrive E. Bianchi, priore della Comunità di Bose: ascolto per quello che riguarda la quotidianità, fare memoria per quello che riguarda la Scrittura, discernere per quello che riguarda la storia.

Bellissima la vicenda di Mosè così come ce la racconta il libro dell'Esodo: In quei giorni, Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb... l'incontro con Dio nasce da uno sbaglio, da un errore, almeno così lo interpreto io, che non me ne capisco di greggi e che mai porterei delle pecore a pascolare attraversando un deserto. Mosè è costretto a cercare un pascolo oltre il deserto. Allora è possibile incontrare Dio anche se ci siamo sbagliati, anche se non abbiamo fatto tutte le cose bene. E' senza volerlo che Mosè arriva al monte della rivelazione. Oggi siamo aiutati a comprendere come le fasi della nostra vita, legate alle necessità, conducano verso l'incontro con Dio (d. Giuseppe Dossetti). Poi (e qui il riferimento importante alla conversione) il desiderio di Mosè di avvicinarsi: Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo. Bello che nel testo in aramaico ci sia scritto voglio scostarmi, voglio allontanarmi, voglio spostarmi... cosa vuol fare Mosè? Avvicinarsi o allontanarsi? semplicemente vuole cambiare strada, vuole allontanarsi da sentiero che sta percorrendo per vedere bene che succede. Che bello... Mosè inizia ad abbandonare la sua via per avvicinarsi al Signore anche se ancora non lo conosce... quando comprenderà che chi gli parla è Dio e quindi lo conoscerà, allora si coprirà il volto perché a spingerlo non sarà più la curiosità (chi non conosce Dio è curioso e cerca dei segni scriveva don Dossetti) ma la consapevolezza di una debolezza, il non poter fissare lo sguardo: si copre il volto per poter stare alla presenza di Dio. E' bellissimo anche il volto di Dio che emerge da questo testo: un Dio attento al suo popolo. Con lo sguardo attento ho visto la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze... due cose importanti qui: l'attenzione che Dio pone nel guardare ed ascoltare il grido di ciascuno (ma si apprezza nel testo originale ebraico) e il fatto che per la prima volta si parli qui di Israele come suo popolo: è nel momento della prova, della sofferenza, del buio, della sconfitta che Dio ti dice che sei suo, che a lui appartieni e ti fa sentire tutto il suo amore.

Sento che la medesima misericordia traspare dal brano di vangelo che abbiamo ascoltato e dall'invito che Gesù ci fa a coinvolgerci nelle vicende delle persone, a partecipare senza giudicare frettolosamente. Giudicare come peccatori e meritevoli di morte diciotto persone decedute nel crollo di una torre è certamente quanto di più stupido e superficiale si possa fare (è arrivata anche qui a Cuba la eco della predicazione di un pastore che ha dichiarato che il terremoto di Haiti ha come causa prima il peccato degli abitanti dell'isola). C'è una insensibilità agli eventi, un'indifferenza, un non lasciarsi toccare che è già un morire. Se non vi convertirete cioè se non vi lascerete toccare, perirete allo stesso modo cioè morirete schiacciati, soffocati dalla vostra indifferenza. Segno di misericordia è anche l'invito a faticare intorno a chi non porta frutto. Certo che la strada più breve di fronte ad un fico che non porta frutti (è stato buffo capire dalle facce dei cubani che di alberi di fico loro non ne hanno mai visti!... abbiamo rimediato con la guaiaba certamente più conosciuta qui...) è quella di tagliarlo e di non pensarci più (penso a quante amicizie troncate, a quante fughe da situazioni ormai compromesse, a quanti perdoni mancati) ma il vangelo ci dice che l'infecondità dell'albero diviene per il vignaiolo diviene l'invito a lavorare ancora e ancora di più affinché tutto sia fatto per mettere la pianta in condizioni di portare frutto. Alla tentazione della durezza e dell'esclusione, la parabola oppone la fatica raddoppiata dell'amore. Qui sento un'altra conversione importante per me: la necessità di aspettare i tempi degli altri. Mi riconosco impaziente ed incapace di questo quando mi risento un po' se dopo una serie di incontri in una comunità siamo sempre punto e capo, all'inizio. Che bello invece quando ci si scopre pazienti e capaci di riconoscere nella incompletezza e inadeguatezza degli altri la nostra inadeguatezza.

Forse è proprio per questo che S. Paolo avverte chi si sente troppo sicuro di se stesso o della sua appartenenza alla comunità. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere... il povero, ma anche colui che nella sua incapacità a governarsi cerca di sbarcare il lunario e prova a raggirarti, colui che nulla può per la situazione in cui si trova ma anche colui che non vuole impegnarsi per uscirne, non sono situazioni da valutare, ma specchi in cui riconoscermi, per poter capire quanto ancora devo lasciar lavorare dentro di me Dio, la sua Parola, la sua misericordia.

Omelia di don Maurizio Prandi, maurizioprandi@obistclara.co.cu  


Intelligenza e libertà di fronte alle sventure

Nella trasfigurazione di Gesù, narrata dal vangelo della settimana scorsa, compare il personaggio di Mosè, il quale torna nella prima lettura di oggi (Esodo 3,1-15). Vi si narra la sua vocazione: da un roveto che arde senza consumarsi, Dio lo manda in Egitto a liberare il suo popolo, oppresso dalla schiavitù, e nell'occasione gli rivela il proprio nome. Nella mentalità dell'epoca, il nome di una persona ne manifesta l'identità, e comunicarlo significa ammettere l'altro nella propria intimità; significa la volontà di stabilire rapporti di amicizia: questo è dunque l'atteggiamento di Dio verso gli uomini. Il Nome rivelato a Mosè si traduce come "Io sono colui che sono", cioè l'unico Dio, l'Eterno: nella circostanza, manifesta la sua bontà, perché ha compassione del suo popolo e lo soccorre. La bontà dell'Eterno si fa più evidente ancora nel Nuovo Testamento, quando Gesù dice che Dio è Padre: il Padre suo e nostro, il più amoroso dei padri.
Il vangelo odierno (Luca 13,1-9) si basa su un'esortazione, dedotta da due fatti di cronaca. Il primo è "il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici"; il secondo riguarda "quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise". Ricordiamo: Ponzio Pilato era il governatore romano della Palestina, espressione di una potenza che per affermarsi non esitava a ricorrere alla violenza; Siloe era un quartiere, il più antico, di Gerusalemme. Quegli episodi di duemila anni fa trovano un facile parallelo nell'attualità. Il primo, nella violenza praticata dagli uomini: le persecuzioni e le guerre, lo spaccio di droga e il cosiddetto femminicidio, l'inquinamento del suolo, le mafie, e via inorridendo. Il secondo, nella violenza della natura, con il corredo di morti per terremoti, tsunami, tempeste tropicali, montagne franose, eruzioni vulcaniche e via lamentando.
"Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? O quelle diciotto persone... credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?" chiede Gesù, conoscendo la mentalità dei suoi ascoltatori: e in entrambi i casi risponde con un categorico " No, io vi dico". Anche oggi non manca chi vede nelle disgrazie altrui una punizione del Cielo; ma forse più numerosi sono quanti lamentano che Dio non intervenga a impedirle, dimenticando che se ci manovrasse come robot violerebbe la libertà di cui ci ha dotati. E con la libertà ci ha dato l'intelligenza, per costruire case antisismiche e non in luoghi a rischio, per evitare di assumere droghe e quant'altro danneggia noi stessi e chi ci vive accanto, per edificare un mondo più giusto dove sia bandita ogni violenza e si viva in uno spirito di solidarietà.
In ogni caso, non sappiamo quando giungerà la fine della vita terrena: potrebbe capitare all'improvviso, e dunque occorre da subito pensare al "dopo", perché il "dopo" comporta un giudizio, per valutare i frutti che in questa vita ciascuno ha prodotto. E' quanto Gesù ricorda con la paraboletta del fico sterile: "Sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest'albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?" Così dice il padrone al contadino, il quale risponde: "Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai". In altre parole: Dio si aspetta frutti dall'uomo, e gliene offre i mezzi; aspetta con pazienza, ma non all'infinito. Ne deriva l'esortazione a non trascorrere una vita vuota, ma a riempirla di buoni frutti; non bisogna dunque né restare paralizzati dalla paura o dalla rassegnazione, né trascorrere i giorni presenti nell'indifferenza o nel male. Il richiamo di Gesù suona piuttosto come un invito a valorizzare la vita, a viverla in pienezza, densa di bene. 

Omelia di mons. Roberto Brunelli


Salvezza è portare frutto non solo per sé ma per altri

Racconti di morte, nel Vangelo, e grandi do­mande. Che colpa a­vevano quei diciotto uccisi dalla caduta della torre di Si­loe? È Dio che manda il ter­remoto? Per castigare qual­cuno distrugge una città? Ge­sù prende le difese di Dio e degli uccisi: la mano di Dio non produce morte; l'asse at­torno al quale gira la storia non è il peccato. Chi soffre si chiede: che cosa ho fatto di male per meritarmi questo castigo? Gesù risponde: niente, non hai fatto niente. Dio è amore e l'amore non conosce altro castigo che ca­stigare se stesso. Smettila di pensare che l'esistenza si svolga nell'aula di un tribu­nale, Dio non spreca la sua eternità in condanne, o in vendette. La gente interroga Gesù su fatti di cronaca, ed è chiamata a guardarsi dentro.
Se non vi convertirete, perire­te tutti. Due torri gemelle so­no crollate, un 11 settembre di anni fa, ma vi abbiamo let­to solo un fatto di cronaca, non un richiamo alla con­versione. Se l'uomo non cambia, se non imbocca al­tre strade, se non si converte in costruttore di pace e giu­stizia, questa terra andrà in rovina perché fondata sulla sabbia della violenza e del­l'ingiustizia. Gesù l'ha messo come comando che riassu­me tutto: amatevi, altrimen­ti vi distruggerete tutti. Il Van­gelo è tutto qui. Amatevi, al­trimenti perirete tutti, in vite impaurite e inutili. Nella pa­rabola del fico sterile chi rap­presenta Dio non è il padro­ne esigente, che pretende giustamente dei frutti, ma il contadino paziente e fidu­cioso: «voglio lavorare ancora un anno attorno a questo fico e forse porterà frutto».
Ancora un anno, ancora un giorno, ancora sole, pioggia e lavoro: quest'albero è buo­no, darà frutto! Tu sei buono, darai frutto! Dio, come un contadino, si prende cura co­me nessuno di questa vite, di questo campo seminato, di questo piccolo orto che io so­no, mi lavora, mi pota, sento le sue mani ogni giorno. «Forse, l'anno prossimo por­terà frutto». In questo forse c'è il miracolo della pietà di­vina: una piccola probabilità, uno stoppino fumigante so­no sufficienti a Dio per at­tendere e sperare. Si accon­tenta di un forse, si aggrappa a un fragile forse. Per lui il be­ne possibile domani conta più della sterilità di ieri. Con­vertirsi è credere a questo Dio contadino, simbolo di speranza e serietà, affaticato attorno alla zolla di terra del mio cuore. Salvezza è porta­re frutto, non solo per sé, ma per altri. Come il fico che per essere autentico deve dare frutto, per la fame e la gioia d'altri, così per star bene l'uo­mo deve dare. È la legge del­la vita. 

Omelia di padre Ermes Ronchi


Ruminare i Salmi - Salmo 103,2 (III domenica di quaresima, anno C)

CEI Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici.
NV Benedic, anima mea, Domino, et noli oblivisci omnes retributiones eius.
Atanasio: Chi davvero ricorda i benefici di Dio, non si stanca mai di lodarlo.
Lc 13,8-9 «Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai».
Il tempo che ci è offerto per convertirci è un immenso dono di Dio.

http://www.youtube.com/watch?v=9fBvbHrW7BA
http://youtu.be/9fBvbHrW7BA 

Omelia di don Marco Pratesi


Liturgia e Liturgia della Parola della Terza Domenica di Quaresima (Anno C): 3 marzo 2013
 

Lectio sulla III Domenica di Quaresima