19 agosto 2012 - XX Domenica del Tempo Ordinario: il pane di Cristo ci dà la vera vita

News del 18/08/2012 Torna all'elenco delle news

Il Vangelo di questa ventesima domenica avvia alla concusione il discorso di Gesù tenuto nella sinagoga di Cafarnao. Il senso delle sue parole come anche del miracolo della moltiplicazione dei pani si è fatto sempre più chiaro. A voce alta Gesù dice: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo". Tutti sono ad ascoltarlo, ma i più sono così intenti a pensare ai propri vantaggi da non comprendere la novità evangelica.
Nel suo discorso Gesù non manca di porre riferimenti al Primo Testamento per facilitare la comprensione delle sue parole. Ha esplicitamente parlato della manna, che il libro della Sapienza presenta come "cibo degli angeli, capace di procurare ogni delizia e manifestazione della dolcezza di Dio verso i suoi figli" (Sap 16, 20-21). Nella memoria degli ascoltatori risuonavano i numerosi passaggi ove la comunione con Dio veniva espressa con le immagini del banchetto. Nel libro dei Proverbi si scrive che la Sapienza ha imbandito un banchetto e invita tutti: "Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato. Abbandonate la stoltezza e vivrete, andate diritti per la via dell'intelligenza"(9, 4). Il pranzo manifestato con il pane e il vino è il simbolo della comunione e dell'intimità che la Sapienza offre al popolo d'Israele. Ed era già chiaro che non si trattava solo del pane materiale. Il profeta Amos diceva che gli uomini non avevano solo "fame di pane né sete di acqua ma di ascoltare la parola del Signore"(8, 11-12).
Gesù, con il tema del banchetto, raccoglieva le pagine della Scrittura e le portava a compimento. Egli stesso preparava ora una mensa a cui invitava tutti. Lo scandalo degli ascoltatori però non riguardava questo tema; giunge quando egli iniziò a chiarire che il pane del banchetto era lui stesso, il suo corpo (in aramaico, com'è noto, invece del termine "corpo" si usava la parola "carne" che indicava la persona intera). Gli ascoltatori si chiedevano tra loro: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?". Discutevano su cosa volesse intendere con queste parole. Ed era più che comprensibile. Anzi facevano bene, perché era (ed è) davvero straordinario quello che Gesù stava dicendo. Eppure, bastava chiedere, bastava cercare una spiegazione interrogando Gesù stesso. Essi, invece, non volevano umiliarsi a chiedere spiegazioni; erano sicuri della loro sapienza. I poveri e i mendicanti non hanno paura di chiedere e neppure di essere anche petulanti: per loro, mendicare è questione di vita o di morte. Coloro che sono sazi delle proprie convinzioni o sazi di pane, non si abbassano e non chiedono, semmai mormorano e giudicano. Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, è ancor più esplicito e afferma: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo resusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui".
Questo linguaggio di Gesù è molto concreto, sino ad essere scandalosamente crudo. "La carne e il sangue" indicavano l'uomo intero, la persona, la sua vita, la sua storia. Se alla samaritana, incontrata al pozzo, Gesù aveva detto che avrebbe potuto darle "acqua viva", ora propone la sua stessa persona come "il pane della vita". Gesù offre se stesso ai suoi ascoltatori; potremmo dire, nel senso più realistico del termine, che si offre in pasto a tutti. È sua vocazione divenire un uomo mangiato, consumato, spezzato, versato. Davvero Gesù non vuole conservare nulla per se stesso e offre tutt'intera la sua vita per gli uomini. L'Eucarestia, questo mirabile dono che il Signore ha lasciato alla sua Chiesa, realizza la nostra misteriosa e realissima comunione con lui. Paolo con energia dice ai cristiani di Corinto: "Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?"(1 Cor 10, 16).
Tutto ciò interroga il nostro modo di accostarci all'Eucarestia. Quante volte purtroppo si cede a quella stanca abitudine che peraltro priva coloro che si accostano all'Eucarestia di gustare la dolcezza di questo, tenero e sublime mistero d'amore. Un mistero d'amore così alto che deve far pensare a ciascuno di essere sempre e comunque indegno di riceverlo. Infatti, la Santa Liturgia, anche dopo la più perfetta delle confessioni, ci fa ripetere le stesse parole del centurione: "O Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto". Sì, non siamo mai degni di accostarci al Signore. È una verità che tanto spesso dimentichiamo. È il Signore che ci viene incontro; è lui che si avvicina a noi sino a farsi cibo e bevanda. L'atteggiamento con cui dobbiamo avvicinarci all'Eucarestia deve essere quello del mendicante che stende la mano, del mendicante di amore, del mendicante di guarigione, del mendicante di conforto, del mendicante di sostegno. Narrano le antiche storie che una donna si recò da un padre del deserto confessandole di essere assalita da terribili tentazioni e che spesso ne era travolta. Il santo monaco le chiese da quanto tempo non faceva la comunione. Ella rispose che erano ormai molti mesi che non riceveva la santa Eucarestia. Il monaco le rispose dicendole più o meno queste parole: "provi per altrettanti mesi a non mangiare nulla e poi venga a dirmi come si sente". La donna capì quanto le aveva detto il monaco e cominciò a fare regolarmente la comunione. L'Eucarestia è cibo essenziale per la vita del credente, è anzi la sua stessa vita, come Gesù stesso, chiudendo il suo discorso, afferma: "Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me". Il Signore sembra non chiederci altro se non di rispondere al suo invito e gustare la dolcezza e la forza di questo pane che egli gratuitamente e abbondantemente continua a donarci. 

Omelia di mons. Vincenzo Paglia


Dio, quel Pane che si fa lievito in noi

In questo breve Vangelo di otto versetti, Gesù per ot­to volte ci parla di un Dio che si dona: «Prendete la mia carne e mangiate». Farsi pane è un bisogno incontenibile di Dio.
Qui emerge il genio del cri­stianesimo: non più un Dio che domanda agli uomini of­ferte, doni, sacrifici, ma un Dio che offre, sacrifica, dona, perde se stesso dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo. «Mangiate e bevete di me»: mangiare e bere Cristo significa diventare luce da lu­ce, Dio da Dio, della stessa sua sostanza. Per farlo occorre co­gliere il segreto vitale di Gesù, assimilarne il nocciolo vivo e appassionato.
Gesù ha scelto il pane come simbolo dell'intera sua vita. Perché per arrivare ad essere pane c'è un lungo percorso da compiere, un lavoro tenace in cui si tolgono cortecce e gusci perché appaia il buono na­scosto di ogni cuore: spiga dentro la paglia, chicco den­tro la spiga, farina dentro il chicco. Il percorso del pane è quello di coloro che amano senza contare le fatiche. Se­mini il grano nella terra oscu­ra, marcisce, dice il Vangelo, e nascono le foglioline. È bello a gennaio vedere le foglioline tremare mentre si alzano so­pra la neve. Ma se ti fermi lì, hai vinto il nero della terra e il bianco della neve, ma non di­venti pane. Per diventarlo de­vi andare su, salire, e a giugno la spiga gonfia si piega verso la terra, quasi a voler ritornare lì, a dire: «ho finito». Invece vie­ne la mietitura, e se lo stelo di­ce «basta, ho già patito la vio­lenza della falce!» non diven­ta pane. Poi viene la battitura, la macina, il fuoco, tutti pas­saggi duri per il chicco. A co­sa serve alla fine tutto questo? Serve a saggiarci il cuore. Dio ci mette alla prova perché sa che dentro di noi c'è del buono, vuole soffiare via la pula perché appaia il chicco, to­gliere la crusca perché appaia la farina. Al buono di ciascu­no Dio vuole arrivare.
Cristo si fa pane perché o­gnuno di noi prima di mori­re deve diventare pane per qualcuno, un pezzo di pane che sappia di buono per le persone che ama. E goccia di sangue, che è il simbolo di tutto quanto abbiamo di buono e di caldo e di vivo, che mettiamo a disposizione di chi amiamo e, ancor più, di chi ha bisogno di essere a­mato. Dio è pane incammi­nato verso la mia fame. Sa­permi cercato, nonostante tutte le mie distrazioni, no­nostante questa mia vita su­perficiale e le risposte che non do, sapere che io sono il desiderio di Dio è tutta la mia forza, tutta la mia pace.  

Omelia di padre Ermes Ronchi 
 

La sapienza che si fa pane

Anche nella liturgia odierna si insiste sul concetto di Gesù pane di vita, ma questa volta il discorso assume connotati molto più consistenti. Osserviamo in primo luogo come il libro dei Proverbi (I Lettura) si incentri sulla Sapienza che, intraprendente e dinamica, si è costruita la casa, ha ucciso gli animali, ha preparato il vino e ha imbandito la tavola. Poi invita: Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato. E ammannisce una tavola di ricche vivande alla quale sono invitati tutti gli uomini di tutti i tempi, che vivono la profondità del convito divino che raduna, riunisce nella comunione, libera e salva.
La Sapienza nell'Antico Testamento era innanzitutto prerogativa umana come capacità di agire cercando sempre Dio e salvaguardando se medesimi dal male; era caratteristica dell'uomo saggio che sapeva guardare il mondo e la vita sotto l'aspetto della volontà del Signore, mettendo in atto ogni cosa nella consapevolezza di realizzare la chiamata divina. Successivamente, dopo attenta riflessione, essa viene identificata anche come una qualità del Dio vivente, un dono o una prerogativa che scaturisce dallo stesso Signore e che Questi elargisce agli uomini a piene mani (Sir 1  3): essa è la presenza di Dio nell'anima dell'uomo, il dispiegarsi delle opere divine nel mondo soprattutto nel processo della creazione e l'intervento pronto e mirato di Dio a favore del singolo e della collettività; essa viene descritta come organizzatrice di un banchetto di sontuose vivande i cui elementi irrinunciabili, di spicco, sono il pane e il vino. In questi due alimenti la sapienza mostra di voler offrire il meglio delle vivande agli uomini e se è vero che nella Bibbia il banchetto è sinonimo di salvezza e di comunione gioiosa con il Signore, nel pane e nel vino tale assunto di festosità piena ha la sua massima configurazione: mangiando il pane e il vino della Sapienza, si vive la piena comunione con Dio e si realizza l'adempimento dei propri desideri e il raggiungimento delle promesse. La Sapienza di Dio è apportatrice della gioia e della salvezza perenne simboleggiata da un pasto di vivande consistenti che tuttavia non sarebbe lauto se mancassero pane e vino. Sempre la Sapienza invita l?uomo alla partecipazione attiva a questo atto di comunione commensale soprattutto nell'esortazione ad evitare la Follia, il male e la deprezzabile dispersione morale dell'uomo.
Il Nuovo Testamento identifica la Sapienza con Cristo: secondo Paolo egli infatti è per noi "sapienza, giustificazione e redenzione" (1Cor 1, 30) nonché sapienza che non appartiene a questo mondo (1 Cor 2, 6); Cristo è per l'apostolo "potenza di Dio e sapienza di Dio" (1 Cor 1, 23-24), ma è soprattutto Giovanni che accomuna le caratteristiche della Sapienza dell'Antico Testamento con il Verbo fatto uomo poiché il Padre manifestandoci il Figlio Parola fatta carne ci rivela la sua bontà, magnanimità e la sua sapienza. Cristo è la Sapienza del Padre, che non soltanto si è costruita una casa, ma che ha voluto abitare e interagire con gli uomini ponendo la sua tenda in mezzo a tutti noi.
Sempre Cristo invita ancora una volta tutti quanti al banchetto della gioia e invita ciascuno a mangiare il pane e bere il vino, identificando questa volta egli medesimo con questi due elementi: "io sono il pane vivo disceso dal cielo- chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell?ultimo giorno. Nella mentalità dell?Antico Testamento era aberrante che si potesse pensare alla consumazione del sangue durante un pasto e il mangiare la carne e bere il sangue poteva avere sentore di antropofagia; ed è per questo che un simile modo di rivolgersi da parte di Gesù desta subito scalpore e disorientamento. Eppure Gesù si mostra molto esplicito e risolutivo quando associa la sua carne con il pane e il suo sangue (sia pure in un secondo momento) con il vino: Egli vuole dire innanzitutto che il nostro nutrimento di lui deve consistere nell'immedesimazione e nell'accoglienza piena del suo mistero, nella nostra configurazione a lui e nell'assunzione che di lui facciamo in tutti gli ambiti della vita, ma nell'espressione "mangiare la mia carne e bere il mio sangue" si riscontra anche l'invito diretto e perentorio alla consumazione del suo corpo sotto le specie del pane materiale e quindi si fa riferimento immediato all'Eucarestia. Con questo sacramento, nel quale Gesù presenzia inqualificabilmente sotto le apparenze del pane e del vino ripresentando la tragicità dei momenti del suo sacrificio sulla croce, noi siamo invitati al banchetto lauto e cospicuo della vita nell'assunzione del pane e del vino che allietano e risollevano per sempre e siamo avvinti dalla forte presenza coinvolgente di Cristo Sapienza eterna del Padre.
In questi versetti giovannei si completa il senso delle affermazioni quanto a Gesù Cristo pane vivo disceso dal cielo e si rende esplicito il nostro atteggiamento nei suoi confronti che è quello della fiducia e dell'accoglienza, dell'apertura e della libera assimilazione senza riserve, della coscienza piena nell'assimilazione spontanea di Gesù che va preso come centro totalizzante prioritario della nostra vita; ma anche quello della nutrizione materiale del Sacramento, che garantisce le possibilità suddette.  
 

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta
 

Liturgia della XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 19 agosto 2012

Liturgia della Parola della XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 19 agosto 2012