La vite e i tralci, la vita e le sue opere

News del 04/05/2012 Torna all'elenco delle news

La scorsa domenica Gesù ha parlato di sé, e del rapporto che propone agli uomini, con un paragone tratto dal mondo pastorale ("Io sono il buon pastore"). Oggi (vangelo secondo Giovanni 15,1-8) continua, ricorrendo invece al mondo agricolo: "Io sono la vite, voi i tralci".
Stupisce sempre la semplicità con cui egli espone concetti sublimi; parla delle più alte realtà riguardanti la vita umana, facendole emergere dall'umile esperienza quotidiana, in ogni ambito: la pesca ("Vi farò pescatori di uomini", dice ad alcuni, intenti a gettare le reti nel mare di Galilea), gli incidenti che possono occorrere a chi viaggia (parabola del buon samaritano), i campi da coltivare (con la sorpresa di trovare il frumento infestato dalle erbacce), il lavoro delle casalinghe (l'indaffarata Marta, la samaritana al pozzo). E si potrebbe continuare; in ogni caso, par di capire, egli invita a cogliere anche nei gesti più semplici, nelle attività quotidiane spesso considerate banali, noiose, insignificanti, le dinamiche profonde che collegano l'uomo alla natura, nell'attuazione di un piano grandioso che ci trascende ma nel contempo dà senso al nostro operare.
E' appena trascorso il primo maggio, festa del lavoro, i cui valori tradizionali si sono caricati quest'anno della difficile congiuntura che investe disoccupati, precari, "esodati" e quanti altri hanno un lavoro ma sono a rischio di perderlo. Vogliamo sperare che essi siano al primo posto nell'agenda del governo e di chiunque abbia modo di concorrere a risolvere la loro situazione. Al primo posto: che tutti abbiano un lavoro è decisivo per la pace sociale e per salvaguardare la dignità propria di ogni singolo uomo. Il cristiano poi attribuisce al lavoro ulteriori valenze: con una bene orientata attività egli adempie al divino mandato di continuare, per così dire, l'opera creatrice di Dio; la fatica che il lavoro comporta ha una funzione riparatrice del male di cui ogni uomo è portatore; inoltre, se si pensa che il proprio fare torna anche a vantaggio di altri, in qualche modo si mette in pratica il supremo precetto dell'amore del prossimo.
Tornando ai riferimenti evangelici ricordati, essi danno evidenza al fatto che il lavoro mette l'uomo in rapporto col mondo creato, dal quale però egli si differenzia per un aspetto essenziale: mentre in natura tutto è automatico, spontaneo, istintivo, tutto obbedisce a leggi preordinate, l'uomo vi si raccorda mettendo in gioco la propria intelligenza e la libertà con cui ne usa. "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla", dice Gesù (sottintendendo, nulla di buono: purtroppo si vede ogni giorno come l'uomo possa "fare" anche da solo, e quali ne siano i risultati). In natura la vite produce automaticamente i tralci, e se niente o nessuno li spezza essi danno automaticamente i grappoli. Trasferendo il paragone al rapporto tra il cristiano e il suo Signore, ogni automatismo è escluso: perché i tralci restino uniti al tronco occorre un duplice concorso di libera volontà. Ora, mentre è garantita la libera volontà della vite-Cristo di trasmettere ai tralci-uomini la linfa vitale che consente i frutti, non è altrettanto scontata la volontà dei tralci di rimanere uniti alla vite, così portando frutto. Dipende dalla loro libertà, dalla volontà, dalla consapevolezza che altrimenti inaridiscono, Con la conseguenza che lo stesso Gesù subito dopo ricorda: "Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano".
Tutto il paragone si regge dunque sul verbo rimanere: l'infinita bontà di Dio dona all'uomo la possibilità di non sprecare la propria vita in un susseguirsi di giorni insignificanti o, peggio, di opere malvagie, ma di colmarla di senso mettendosi in rapporto con lui, e rimanendo con lui in comunione di fede e di amore. 

Omelia di mons. Roberto Brunelli (La vite e i tralci, il lavoro e la libertà)

Nei discorsi di addio del Vangelo secondo san Giovanni (capitoli 13-17) l’evangelista prende spunto dalle parole di Gesù per riflettere, con il carisma che gli è proprio, sulla vita dei credenti dal tempo dell’Ascensione al ritorno del Signore. Egli si riconosce talmente legato al Signore attraverso lo Spirito di Dio che parla ai suoi ascoltatori e ai suoi lettori usando l’“io” di Cristo. Per mezzo della sua voce, il Signore rivela a coloro che credono in lui qual è la loro situazione, ordinando loro di agire in modo giusto.
È durante la festa liturgica delle domeniche che vanno da Pasqua alla Pentecoste che la Chiesa propone alla lettura questi discorsi, per mostrare ai credenti cos’è infine importante per la loro vita. Attraverso un paragone, il Signore ci rivela oggi che tutti quelli che gli sono legati mediante la fede vivono in vera simbiosi. Come i tralci della vite, che sono generati e nutriti dalla vite stessa, noi cristiani siamo legati in modo vitale a Gesù Cristo nella comunità della Chiesa. Vi sono molte condizioni perché la forza vitale e la grazia di Cristo possano portare i loro frutti nella nostra vita: ogni tralcio deve essere liberato dai germogli superflui, deve essere sano e reagire in simbiosi fertile con la vite.
Per mezzo del battesimo, Cristo ci ha accolti nella sua comunità. E noi siamo stati liberati dai nostri peccati dalla parola sacramentale di Cristo. La grazia di Cristo non può agire in noi che nella misura in cui noi la lasciamo agire. La Provvidenza divina veglierà su di noi e si prenderà cura di noi se saremo pronti. Ma noi non daremo molti frutti se non restando attaccati alla vite per tutta la vita. Cioè: se viviamo coscienziosamente la nostra vita come membri della Chiesa di Cristo. Poiché, agli occhi di Dio, ha valore duraturo solo ciò che è compiuto in seno alla comunità, con Gesù Cristo e nel suo Spirito: “Senza di me non potete far nulla”. Chi l’ha riconosciuto, può pregare Dio di aiutarlo affinché la sua vita sia veramente fertile nella fede e nell’amore.

Un Dio... multietnico

Mi piace davvero tanto il cammino che stiamo facendo in questo tempo di Pasqua, cammino che mi piace sintetizzare così: volto di misericordia è il volto di Dio e segni di misericordia sono le sue opere. Come le scorse domeniche andiamo allora alla ricerca dei segni di misericordia che le letture ci consegnano.

Un primo segno di misericordia che Atti degli apostoli e Lettera di Giovanni ci offrono è il dono dello Spirito. La prima lettura ci dice che la chiesa cresceva di numero con il conforto dello Spirito Santo. Conforto, per la chiesa di Gesù è lo Spirito di Dio, e non altro; conforto per noi è l'amore di Dio, unica certezza in un mare, a volte, di inquietudini. La prima lettura ci dà anche la possibilità di fare un piccolo approfondimento su cosa voglia dire, concretamente, questo conforto dello Spirito. Paolo non sta vivendo un momento facile nella sua predicazione, cerca di attaccarsi al gruppo dei primi credenti ma è un tentativo inizialmente vano a causa del suo passato di persecutore dei cristiani. Passato che non riesce ancora a scrollarsi da dosso: tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Il brano che oggi abbiamo ascoltato sembra segnare una svolta nella vita di Paolo, come una sorta di riconoscimento da parte della chiesa di Gerusalemme quando Barnaba si fa garante del cambiamento definitivo di Saulo il quale, dice Barnaba, aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Dentro allora questo discorso più ampio sul dono dello Spirito, credo si possa affermare anche che segno di misericordia è tutta la vita di Paolo di Tarso, perché è una vita che si è lasciata afferrare da Dio da un lato, ed è una vita non giudicata ma guardata con amore dall'altro. Una vita accolta. Accolta da Dio ma accolta anche da fratelli che lo presentano, lo incoraggiano e che nel momento giusto lo salvano dal pericolo. Mi piace che possiamo allora lasciarci custodire dalle parole di don Angelo Casati che mi paiono così evangeliche rispetto a quanto persone non abitate da nessun valore vanno dicendo negli ultimi giorni: pensate a quale senso potrebbero avere e significare per noi oggi le comunità cristiane, le nostre assemblee, se anziché aumentare le nostre paure, le nostre frustrazioni sapessero dar fiato, infondere fiducia, incoraggiare, sostenere. Forse è proprio questa accoglienza sperimentata su di sé che gli permette di comprendere la multietnicità di Dio, perché per abitare la sua casa non sono necessarie appartenenze segnate da tradizioni umane (circoncisione) ma basta la fede in lui. Interpreto così allora lo Spirito come conforto, una sorta di libertà interiore che permette di annunciare la Parola e questo farlo nel nome del Signore Gesù, senza mescolarvi nient'altro, senza aggiungere, né togliere nulla, la parola nuda, in tutta la sua forza, radicata nel passato d'Israele (al quale Paolo era orgoglioso di appartenere), e nello stesso tempo capace di raggiungere l'oggi di ogni uomo, in qualsiasi luogo, per farlo vivere. La chiesa può crescere soltanto dentro a questo annuncio coraggioso della Parola di Dio.

Anche la seconda lettura sottolinea il dono dello Spirito. Se ci è stato detto che lo Spirito è conforto, ora si afferma che lo Spirito è la presenza del Figlio in noi. Lo Spirito è il rimanere di Dio, il suo fermarsi, il suo restare per sempre, il suo dimorare e il suo abitare, il suo coinvolgimento nella vicenda dell?uomo: da questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato. In questa sua lettera Giovanni ci dice un?altra cosa importante e centrale rispetto a quanto stiamo provando a condividere sul volto misericordioso di Dio, e ce la dice proprio riguardo al cuore, rilevando la differenza tra il nostro cuore e il cuore di Dio: davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Come dire che il mio cuore quando rimprovera, giudica o spara sentenze, è un cuore piccino. A volte siamo prigionieri del nostro cuore, che, proprio perché giudica, impedisce di guardare noi stessi e di guardare gli altri con lo sguardo di Dio. L'invito è ad avere un cuore grande, misericordioso come il cuore di Dio.

Un segno di misericordia molto importante ce lo offre anche il vangelo. Ce lo offre in due verbi che istintivamente allontano da me perché non li sento, come dire, positivi: tagliare e potare. Segno di misericordia per Dio è il tagliare, segno di misericordia per Dio è il potare. Su questo mi piace condividere con voi quanto mons. Bregantini ha scritto ai fedeli della Diocesi di Campobasso in occasione della Quaresima 2008: "Lo sanno benissimo i nostri contadini: un albero, se non lo poti, muore. Se lo poti rinnova la sua forza per un raccolto più abbondante. E' la logica della vita, così come ce l'ha descritta il vangelo: Chi ama la propria vita la perde e chi perde la propria vita per il vangelo la ritrova. Ma potare è un'arte difficile ed è fonte di sofferenza, lenta da apprendere; è Dio il potatore della nostra vita: Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti maggior frutto. Lui sa quando e cosa potare. Dio conosce quali cose dobbiamo lasciare e quando ne è il momento. Ed anche il perché. Perché la potatura non è mai fatta per  tagliare soltanto. E' fatta soprattutto per ridare nuova vitalità. Certo, il contadino, quando taglia, non guarda il ramo che cade. Spesso anzi, taglia proprio il ramo più grosso, lasciando un esile tralcio che tende al cielo. Ma in quel tralcio fragile, il contadino, con gli occhi della fede, già intravede l'abbondanza dell'uva matura. Chi non è contadino si stupisce, perché vede solo il presente, non si rende conto, non sa spiegarsi certi tagli. Solo il contadino capisce, non perché vede, ma perché intravede con gli occhi della fede. 

Omelia di don Maurizio Prandi
 

 

Vite e tralci: l'esperienza di una vita

La pagina evangelica che oggi viene proclamata fa parte di uno dei discorsi di addio che Gesù pronuncia prima di affrontare la passione.
L'immagine che ci viene proposta è quella della "vite" e i "tralci".
Questa similitudine non deve assorbire tutta la nostra attenzione, in quanto il brano in questione contiene altre espressioni che ci offrono la possibilità di una comprensione maggiore e di una interiorizzazione profonda della metafora.
Dobbiamo immaginare una riflessione che l'evangelista fa con e per la sua comunità, nel tentativo di risolvere qualche problema che serpeggia tra i cristiani. È come se l'evangelista stesse richiamando i componenti della comunità al valore fondamentale e fondante della scelta cristiana. In questo contesto la Parola acquista senso.
Io sono la vera vite: in questa auto qualifica troviamo un senso pregnante della presenza di Gesù con la denominazione vera vite precisa che Egli proviene realmente e concretamente da Dio, che in Lui e per Lui Dio continua ad operare nel mondo, Egli è l'immagine fedele della sostanza di Dio, è il compimento di tutte le scritture etc. Il messaggio che si può cogliere è che Gesù è la Verità di Dio Padre, Il Rivelatore per eccellenza, la Via che tira fuori da ogni dubbio, la strada da calpestare per arrivare a quella comunione a cui tutti gli uomini aspirano.
Dopo questa auto presentazione si può dire che vale la pena fidarsi e affidarsi a Lui, anche perché nel mondo non sempre troviamo delle realtà vere. La società in cui viviamo ha perso, nella maggior parte dei casi, questa connotazione di verità: parliamo tutti di "contraffazione" di mondo "virtuale", di comunicazione online, di mms - sms etc. tutte cose con le quali conviviamo, che non portano ad un incontro reale, ad un intreccio di relazioni, ad uno scambio di opinioni. Tutt'altro proiettano l'uomo lontano dal suo simile, lo rendono apparentemente un'isola felice e lo conducono sempre più verso l'emarginazione o depressione.
Dall'unione reale con Gesù Cristo dipende la nostra vita. Cerchiamo Cristo!!!
Il Padre è il vignaiolo non si deve intendere il custode della vigna, ma il proprietario del terreno. La differenza è sostanziale. Infatti l'evangelista ci offre un insegnamento molto alto: la vita dell'uomo è radicata in Dio, è Lui il fondamento della nostra esistenza ed è a Lui che dobbiamo ricorrere e trarre alimento se vogliamo dare un senso alla nostra quotidianità. "Dare un senso" gli altri cantano questa realtà e su di essa ci speculano e noi, in modo spensierato, gli corriamo dietro.
Gesù si propone come "senso vero" e l'ha dimostrato offrendosi per noi e a noi tutto ciò scivola addosso come la pioggia su un impermeabile. Il vangelo ci dice di prendere sul serio la proposta che Dio ci fa attraverso Gesù Cristo.
Per tentare una realizzazione di tutto ciò, il testo del vangelo ci invita a prendere coscienza di alcune cose: essere mondi e rimanere in Lui.
Essere mondi. Gesù parla di purezza. Il senso a se stesso, alla propria vita e alle cose si dà praticando le virtù e puntando sui valori. La maggior parte delle virtù e dei valori non vengono più considerati perché pensiamo, che nell'era in cui regna la tecnologia, sono abbondantemente superati o che sanno di antico e tutto ciò che sa di passato viene elegantemente messo da parte. Ma forse si annida una tentazione: tutto ciò che mi potrebbe far riflettere e rientrare in me stesso lo reputo una spazzatura. Ma la vita in genere e l'esperienza umana ci insegnano che l'esercizio di alcune virtù e la pratica di alcuni valori sono fondamentali nella costruzione del proprio IO e della propria personalità. Dove trovare tutto ciò? La risposta del Vangelo è chiara: "nella parola che vi ho annunziata".
È nella vita di Gesù Cristo, vangelo vivente, e nell'insegnamento della Chiesa che possiamo trovare "l'elenco" delle virtù e dei valori che ci permettono di stare sulla terra, ma con lo sguardo rivolto verso l'alto.
Altro elemento è rimanere in Lui dimorare e rimanere hanno lo stesso significato e sono legati all'esperienza vitale dei discepoli per cui "il racconto ha il sapore di un'intera vita; ha la potenza non di un ricordo ma di una radice, di un principio, di una fonte che continua a sgorgare e che ha segnato tutta la vita e quella di tutti i discepoli" (Elia Citterio). L'esperienza del rimanere è centrale perché non si tratta di un "tenere" ma di un "lasciarsi tenere", perché il frutto non solo si fa', ma bisogna farlo crescere.

Omelia di don Alessio De Stefano 

tratti da www.lachiesa.it