Santo del giorno 19 maggio: San Crispino da Viterbo

News del 19/05/2024 Torna all'elenco delle news

San Crispino da Viterbo, al secolo Pietro Fioretti, entra nell’Ordine dei Frati Minori cappuccini nel 1693. Per 40 anni vive a Orvieto, prima come ortolano, poi come questuante, e gira per le campagne dove si fa amare per i suoi aforismi di vita quotidiana. Eccone alcuni:

"Ama Dio e non fallire fai pur bene e lascia dire

Chi ama Dio con purità di cuore vive felice e poi contento muore

Poni in Dio la tua speranza che avrai ogni abbondanza

La divina provvidenza più di noi assai ci pensa

Ogni amaro tenetelo caro

Questo assenzio se non è secondo il gusto, è secondo lo spirito".

A chi lo commiserava vedendolo camminare sotto la pioggia, diceva: "Amico, io cammino tra una goccia e l'altra".

E' noto per le sue estasi contemplative e il suo amore per la natura. E’ stato il primo santo canonizzato a Roma da Papa Giovanni Paolo II, il 20 giugno 1982.

Le sue spoglie mortali sono esposte alla venerazione dei fedeli in una cappella della chiesa dell'Immacolata Concezione in via Vittorio Veneto, Roma. E' venerato nella chiesa dei Frati Cappuccini Viterbo - Capuchins of Viterbo 

 

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Martirologio Romano: A Roma, san Crispino da Viterbo, religioso dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, che, mentre viaggiava tra i villaggi montani per mendicare l’elemosina, insegnava ai contadini i rudimenti della fede.

 

Fra Crispino nacque a Viterbo il 13 novembre 1668 dai coniugi Ubaldo Fioretti e Marzia Antoni. Fu battezzato il 15 dello stesso mese col nome di Pietro. Ubaldo uscirà presto dalla scena lasciando il figlio orfano ancora in tenera età e Marzia vedova per la seconda volta. A prendersi cura del bambino subentrerà lo zio paterno Francesco che gli consentirà di frequentare con profitto le scuole primarie presso i gesuiti, per poi accoglierlo come apprendista nella sua bottega di calzolaio.

 La piissima genitrice, dal canto suo, riversa sul piccolo Pietro le più pure e profonde attenzioni materne. In una visita al santuario della Quercia, additando al bambino l'immagine della Vergine, gli dice: « Vedi, quella è la tua madre e la tua signora; in avvenire amala e onorala come tua madre e tua signora». Il futuro Religioso le erigerà ovunque un altarino e le offrirà sempre « i fiori più belli ». Pietro Fioretti si sarebbe deciso a farsi cappuccino in occasione di una processione penitenziale che si svolgeva a Viterbo per impetrare la pioggia in tempo di grave siccità. In quella processione sfilavano esemplarmente anche i novizi scesi dal convento della Palanzana. Fu l'ultimo tocco della grazia per la sua definitiva risoluzione. Infatti il 22 luglio 1693, venticinquenne, farà ingresso proprio nel suddetto convento per compiervi l'anno di noviziato. Destinato di Comunità in vari conventi del Lazio (Tolfa, Roma, Albano, Monterotondo) ed in quello di Orvieto ove rimase per circa quarant'anni, vi eserciterà gli umili e gravosi uffici di infermiere, cuciniere, ortolano e questuante. La sua vita di religioso trascorrerà sul filo di 57 anni totalmente consacrati al servizio di Dio e dei fratelli. Ha dell'incredibile l'opera da lui svolta in campo assistenziale per riportare pace, giustizia e serenità nell'intimo delle coscienze. Crediamo di rendere omaggio ai carismi che lo Spirito elargisce se diciamo che fra Crispino si rese in modo singolare risonanza evangelica su tutti i fronti. Nessuno infatti sfugge alle sue attenzioni: artisti, commercianti, agenti di polizia (allora chiamati sbirri), carcerati, orfani, infermi, contadini, ragazze madri, anime consacrate. E questo non soltanto durante il quarantennio orvietano, quando l'apostolato della bisaccia incontro al pane colmava di occasioni prossime la sua giornata. Quantunque appartengano proprio a quel periodo completivo della sua vita le manifestazioni più avvincenti della sua sensibilità sociale.

Fra Crispino ha al suo attivo altri 18 anni di consacrazione religiosa trascorsi nel chiuso della cucina, nel recinto claustrale dell'orto e - gli ultimi due, con distacco - nell'infermeria alle prese con i propri acciacchi preludenti al tramonto. Come abbia potuto effondere tanta saggezza illuminante ed ispiratrice anche in questa fase di vita nascosta, non è facile comprenderlo. La discreta formazione culturale attinta nella giovinezza e la stessa giovialità congeniale, maturate poi in una comunicativa fiorita di poesia e di penetranti aforismi, non spiegano a sufficienza il fascino esercitato dall'umile cuciniere di Albano su personalità di altissimo rango. È vero che molti, specialmente prelati, confluivano comunque in quei luoghi ameni e ricreativi. Ma rimane il fatto che tutti, nobili e dotti, a cominciare dal papa Clemente XI, amavano conversare con lui e sollecitavano il suo consiglio. E né umanamente si possono intendere casi eclatanti di riconciliazione avvenuti allorché l'obbedienza consegnerà a fra Crispino la zappa di ortolano nel più solitario convento di Monterotondo. Da non dimenticare infine le centinaia di lettere, semplici ed essenziali, latrici su più vasto raggio della sua inesauribile carità. Un uomo dunque pieno di amore, che da autentico figlio del Serafico di Assisi edifica tutti, fraternizza con tutti e rende gloria a Dio con le note del Cantico delle Creature.

Ma forse rifletteremo su quel che più conta se dopo aver veduto fra Crispino tutto donato agli altri, lo ridoneremo per un momento a se stesso. Egli ha inteso innanzitutto santificarsi, attuare in minorità di vita quella che noi oggi, con tanta inventiva nei metodi, chiamiamo formazione permanente.

Da giovane aveva frequentato le scuole classiche, ma in religione prende per maestro un Fratello meno fortunato di lui negli studi, vissuto circa un secolo e mezzo prima, dallo stile di vita tanto simile al suo, canonizzato dal Papa suo amico: è Felice da Cantalice. Fra Crispino studierà per tutta la vita le uniche sei " lettere " di cui era a conoscenza il primogenito dei Santi cappuccini: le piaghe di Cristo e la Madonna. La gioia, la cortesia e l'illuminata comunicabilità, diventate in lui proverbiali, suppongono un esercizio di penitenza e di immolazione incessanti. Crocifisso ai suoi voti, ha condiviso il sacrificio comunitario sino al canto dell'ecce quam bonum. E deve essere stato davvero grande il suo amore se non di rado accorreva in vari conventi per curare e confortare i confratelli infermi con grave rischio per la propria salute.

Nonostante tutte le testimonianze di venerazione e di affetto, a fra Crispino non mancarono insidie, umiliazioni, incomprensioni e croci. E questo era scontato per un religioso come lui. Infatti il suo coerente impegno nella realizzazione dell'ideale evangelico lo poneva non solo al centro dell'attenzione, ma anche in conflitto permanente con la realtà che lo circondava.

Fra Crispino non ammetteva nella sua vita le donazioni calibrate, le mezze misure, i compromessi, le riserve. Rinunciò fin dalla prima ora a battere la strada della mediocrità e si sintonizzò perfettamente col radicalismo evangelico. Basta ascoltarlo: "Amiamo Dio di tutto cuore "; " tutto abbiamo da operare per amor di Dio ". Rivolgendosi ad un confratello gli dichiara: " Se vuoi salvarti l'anima, hai da servare le seguenti cose: amar tutti, dir bene di tutti e far bene a tutti ". Nelle difficoltà riprendeva vigore ripetendo a se stesso: " Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena m'è diletto "; oppure ritrovava il sereno al pensiero che " quando l'uomo fa dal canto suo tutto ciò che sa e può, nel restante deve gettarsi nel mare della misericordia di Dio ". 

Era esigentissimo con se stesso, e perciò aveva il coraggio evangelico di chiedere molto anche agli altri e particolarmente ai suoi confratelli. Voleva che la vita religiosa fosse impegnata, austera, ricca di opere buone, lievitata da un continuo e dinamico fare penitenza.

Fra Crispino fu esemplare nella vita di fraternità, soprattutto attraverso un servizio sollecito, umile, inventivo e gioioso ai fratelli. In tutta la sua vita si distinse nella povertà evangelica. Sobrio nell'uso delle cose, fu alieno da qualunque superfluità o ricercatezza. Nel suo ufficio di questuante seppe unire la più grande carità ad un vivissimo senso del puro necessario. In convento doveva giungere soltanto la Provvidenza da benedire e ringraziare. Una povertà, dunque, fatta mistero di amore e di condivisione. Intese il dovere e l'attrattiva della purezza in modo eminente. Per la salvaguardia di questa virtù si avvalse di tre mezzi: una singolarissima devozione alla Vergine, la preghiera, la penitenza. Divenne modello di obbedienza, intesa come fonte viva di gioia perenne e mezzo efficace per conservare la pace personale e l'armonia fraterna.

Fra Crispino è il santo della gioia, di quella gioia cristiana che è frutto dell'ascolto e della interiorizzazione della Parola di Dio, della pacificazione e comunione con i fratelli. Egli ha amato il Signore perdutamente nei battiti del faticoso quotidiano vissuto. Con ansia ha ricercato il volto di Dio, ha polarizzato tutte le sue energie a contraccambiare l'amore di Dio.

Ad un buon parroco, travagliato da grandi ansietà spirituali, fra Crispino dà consigli tali che un provetto maestro di spirito non potrebbe far di meglio: " Si faccia animo grande e virile ... vada allegramente (a compiere doveri spesso tanto delicati), non facendo caso del turbamento ... Procuri ... stare allegro nel Signore e divertirsi in cose geniali, ma buone e sante, quando però è assalito dalla malinconia... Se la nostra vita è una continua guerra, è segno che siamo destinati per misericordia di Dio ad essere dei principi grandi in paradiso ".

Questa è l'ultima lettera e la più lunga tra le pubblicate. Vi è in essa delicatezza di tratto, penetrazione psicologica e sicurezza di guida spirituale. Si può considerare come il testamento e, insieme, uno dei più espressivi ritratti della fisionomia spirituale di fra Crispino. Caduto gravemente infermo durante l'inverno 1747-48, il 13 maggio lasciò il convento di Orvieto per la volta di Roma. Quando, due anni dopo, l'infermiere lo avvisò che la morte era ormai vicina, rispose rassicurando che non sarebbe morto il 18 maggio per " non turbare la festa di san Felice ". Infatti morì il giorno seguente: 19 maggio 1750. 

Le sue spoglie mortali sono esposte alla venerazione dei fedeli in una cappella della chiesa dell'Immacolata Concezione in via Vittorio Veneto, Roma.

Il 7 settembre del 1806 venne proclamato " Beato " da Pio VII.

Tre circostanze rendono particolarmente toccante il faustissimo evento della canonizzazione: avviene entro l'anno celebrativo dell'8° centenario della nascita di san Francesco; durante il mese che vede l'Ordine di fra Crispino congregato in uno dei suoi più importanti Capitoli Generali; è la prima ad essere decretata da Giovanni Paolo II in quattro anni di pontificato.

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 Vi sono poi degli aforismi adatti all'indole di fra Crispino. Con essi egli scherza allegramente su fatti e situazioni spesso penosi, con un inesauribile senso di humour: Il droghiere orvietano Francesco Barbareschi, tormentato dalla podagra, era da fra Crispino invitato lepidamente "a prender l'asta d'Achille, cioè la vanga, e faticare nella villa Crispigniana, chiamando così il suo orticello, ove seminava l'insalata e piantava gli erbaggi per i benefattori". Bruciante come una frustata in faccia, la risposta data ad un altro che gli chiedeva di esser guarito dallo stesso male: "Il vostro male è più di chiragra che di podagra, perché... non pagate chi deve avere: li vostri operai e servitori piangono...". Alla principessa Barberini, che voleva veder guarito subito il figlio Carlo rispose: "Eh, non ti basta che guarisca nell'Anno Santo? ...Eh, che vuoi pigliare il Signore per la barba? Bisogna ricevere da Dio le grazie quando lui le vuol fare". A Cosimo Puerini, dispiacente di dare in elemosina una fiasca di vino buono, Crispino dice: "Eh, che vuoi fare il sacrificio di Caino?". Dopo che un cappuccino era scampato per miracolo alla morte nel tentativo di attraversare un fiume in piena, fra Crispino cantarellò: "Torbida si vede, torbida si lassa; son un gran matto, se si passa".

A fra Crispino capitava spesso di dover parlare di se agli altri, per aiutarli a farsi sul suo conto un'idea più rispondente alla realtà. Diceva spesso: "Sono peggiore dei merangoli, da' quali pure se ne ricava un poco di sugo, ma da me cosa vogliono ricavare?". Per sottrarsi a lodi ed ammirazione, fra Crispino ricorreva spesso ad immagini e similitudini. A chi gli diceva di non rovinare la minestra con l'assenzio rispondeva: "Ogni amaro tenetelo caro", oppure "Questo assenzio se non è secondo il gusto, è secondo lo spirito". A chi lo commiserava vedendolo camminare sotto la pioggia, diceva: "Amico, io cammino tra una goccia e l'altra", oppure tirava in ballo la sua "sibilla " che gli teneva "l'ombrella sopra il capo" o gli portava le pesanti bisacce.

Essendo andato a visitare il cardinale Filippo Antonio Gualtieri, questi gli chiese perché mai, per l'occasione, non avesse indossato un abito e un mantello un poco migliori. E Crispino rispose, allargando il mantello, che questo riluceva da tutte le parti, volendo significare che era logoro e sbucato. A chi si esaltava per i suoi miracoli, diceva: "Eh via, di che vi meravigliate? Non è già cosa nuova che Dio faccia miracoli"; "E non sai, amico, che san Francesco li sa fare i miracoli?". A Montefiascone, al popolo che gli tagliuzzava il mantello per farne reliquie, gridava: "Ma che fate, o povera gente! Quanto sarebbe meglio che tagliaste la coda ad un cane! Che siete matti? Tanto fracasso per un asino che passa! Andate in chiesa a pregare Iddio!". L'umile bestia da soma tornava spesso nei discorsi di fra Crispino. Un giorno disse al p. Giovanni Antonio: "Padre guardiano, fra Crispino è un asino, ma la capezza che lo guida sta nelle vostre mani; però, quando volete che vada o si fermi, tirategli o allentategli la capezza". Quando si faceva aiutare a porsi sulle spalle le bisacce, tutto allegro e gioviale egli diceva: "Carica l'asino e va alla fiera"; e a chi gli chiedeva perché mai non si coprisse il capo contro la pioggia o il sole, rispondeva: "Non sai che l'asino non porta il cappello? E che io sono l'asino dei cappuccini?". Ma alcune volte soggiungeva con serietà: "Sai perché non porto la testa coperta? Perché rifletto che sempre sto alla presenza di Dio".

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